EPIDEMIE: MONTE OLIMPINO

Posso comprendere che siate stanchi di sentir parlare di tale argomento, ma vi invito a leggere con attenzione; dopo averlo fatto, considerate le innumerevoli analogie, sono arrivato ad una conclusione: purtroppo, nulla di nuovo sotto il sole!, ma, insieme, anche una nutrita dose di pensieri positivi…visto che anche i nostri vecchi sono riusciti ad uscirne,  ed in tempi in cui le condizioni igieniche erano quello che erano e la medicina…pure.

(…dal libro di Primo Porta  Il Comune di Monte Olimpino 1818-1884 dell’Associazione Artistico Culturale Felice Spindler, edito da Tipografia Editrice Cesare Nani nel novembre 1986.)

Durante il periodo che va dal 1850 al 1884 anche a Monte Olimpino si ebbero epidemie di colera, vaiolo e difterite. Ciò fu provocato in parte dal movimento di soldati, oltre che da un certo afflusso di immigrati.
Si dovette anche mettere in funzione un lazzaretto per isolare e curare gli ammalati infettivi.
L’imperiale regio delegato provinciale, con lettera del 24 luglio 1853 segnalava un caso sospetto di “cholera” verificatosi a Cardina e raccomandava che venissero prese le opportune misure sanitarie per evitare che il male si diffondesse. L’ammalato, un certo Tajana, era un militare in permesso.
Ma l’epidemia si aggravò, tanto che il delegato provinciale, con lettera 22 settembre 1855, contestava al commissario del 1° distretto i dati statistici riguardanti il numero dei colerosi, assommanti a 15, di cui uno solo deceduto. Il delegato provinciale, da notizie assunte, affermava che i morti di epidemia erano ben ventiquattro (in tutto il Distretto).
Gli infermi venivano curati in casa e il Comune mise a disposizione dell’agente comunale un apposito fondo per le cure, che consistevano in “suffumiggi” La fattura presentata dalla “nota farmacia Crespi-Reghizzi di Borgo Vico” ammontava alla bella cifra (per quei tempi) di Lire 1.629,24.
Contemporaneamente compariva un’altra epidemia: il vaiolo. Nell’ottobre del 1853 veniva colpito dal morbo un militare del Reggimento Cacciatori, poi, nell’aprile del 1855, venivano segnalati in via lnterlegno un caso dì un ammalato non trasportatile ed un altro in frazione Paluda.
Il Comune dava disposizione al Medico condotto affinché procedesse alla rivaccinazione, ritenuta la cura più efficace per preservare la diffusione del contagio.
Probabilmente l’epidemia era stata portata dal movimento dei militari, tanto è vero che nel 1859 si verificavano altri casi, per cui si provvedeva alla disinfezione con “suffumiggi” delle stanze delle guardie addette al servizio della forza pubblica.
Una ripresa si ebbe poco più di una decina d’anni dopo, per questo l’amministrazione dell’Ospedale di S. Anna diramava ai Sindaci della Provincia una circolare datata 8 febbraio 1872, con la quale si faceva rilevare che: “Lo sviluppo che il vaiuolo va pigliando in questa provincia avendo tolto alla malattia l’ordinaria sua importanza, tanto che taluni municipi hanno dovuto provvedere all’impianto di apposito lazzaretto, consiglia l’amministrazione dello Spedale di S. Anna in Como a sospendere per ora l’accettazione dei vaiuolosi nello stabilimento; sia per rispondere in questo modo alle buone discipline igieniche, sia per evitare il pregiudizio che potrebbe recare ai ricoverati affetti da malattie non contagiose il loro accomunarsi (la separazione completa essendo sempre, se non impossibile, difficile) con malati per vaiuolo. Di tale provvedimento il sottoscritto si affretta a dare parte alla S. V. Ill.ma perché fino a disposizione contraria voglia essere cortese provvedere che i vaiuolosi non siano inviati all’ospedale, evitando cosi all’amministrazione il dolore di doverli respingere con materiale pregiudizio alla già travagliata loro salute. Il R. Commissario straordinario: Fabbri”
Tale disposizione aggravava certamente i già difficili problemi sanitari dei Comuni. Anche a Monte Olimpino si riscontravano nel 1872 numerosi casi di vaiolo, specialmente nelle frazioni di Bignanico e Vignascia. Purtroppo contemporaneamente, o quasi, alle sopra descritte epidemie, ne spuntarono altre e precisamente la difterite, che provocò parecchi decessi, e la pellagra. Il 23 novembre 1878 con ordinanza del Comune si chiusero le scuole “sino a nuovo ordine” in quanto la difterite infieriva seriamente. Basti dire che solo alla Ca’ Matta, sulla strada che si parte dal Ponte Molinello ed ascende a Cardano, si ebbero sette vittime. Il Sindaco diede ordine, sin dal novembre 1878, che i morti a causa di tale male venissero portati al cimitero nottetempo e senza accompagnamento. Tale provvedimento è da ritenersi preso per timore di maggiore diffusione dell’epidemia, ma anche per evitare che nella popolazione subentrasse panico assistendo a tanti funerali quasi contemporanei.
Nei 1879 si aggiungevano sei casi di pellagra, forma morbosa della pelle che provoca deperimento generale dell’organismo. Era diffusa specialmente fra i contadini.
Il medico condotto comunicava alla Prefettura che si trattava di un male importato ed il cui diffondersi era da imputarsi alla poca pulizia delle abitazioni, all’ammasso del letame nelle corti, all’uso del così detto pane di miglio (pan de mei) e del latte inacidito (quagiada).
Nel 1884 sorgevano nuovamente preoccupazioni per l’apparire di alcuni casi di “cholera”, morbo che si era sviluppate in Francia, specialmente a Tolone. Il male si diffuse anche in Provincia di Bergamo. Il Prefetto Guala decretò la sospensione delle fiere, sagre, processioni e pellegrinaggi in tutta la Provincia di Como e, nel circondario di Lecco, anche dei mercati periodici.
La commissione sanitaria comunale di Monte Olimpino, riunitasi il 30 giugno 1884, presente il sindaco ing. Luigi Bianchi, il dott. Lorenzo Cazzaniga e i membri Franzi Giovanni e Franzoni Pietro, nonché il segretario Enrico Corti, prendeva provvedimenti e misure precauzionali contro il pericolo di invasione e diffusione del “cholera morbus”. Le misure che si ritiene opportuno riportare per dare un’idea delle cure preventive allora in atto, si compendiavano come segue:
1) praticare una visita generale alle abitazioni tutte del Comune per una ricognizione della pulizia delle abitazioni e delle persone;
2) richiamare i comunisti (abitanti nel comune) alla piena osservanza delle disposizioni del regolamento di pubblica igiene;
3) destinare, nel caso si verificasse qualche caso di cholera, il locale ampio o meglio la casa ove trovasi la scuola mista di S. Bartolomeo delle Vigne quale luogo di contumacia;
4) accogliere e appoggiare la protesta fatta dalli abitanti di S. Abbondio, sia dipendenti dalla giurisdizione di Como che di Monte Olimpino, contro la determinazione presa da quel Municipio di destinare a lazzaretto provvisorio la piccolissirna, disadattata ed umida casa composta di sei locali, di proprietà del signor Pietro Coduri a S. Abbondio, in prossimità immediata di altre case, e di accompagnare con analoga protesta il reclamo fatto dagli interessati, alla Prefettura.
Ma la Prefettura non accettava la protesta e confermava la validità della casa Coduri come lazzaretto.
Intanto il Prefetto dava ordine a tutte le dogane di confine di far praticare suffumiggi su tutte le persone e merci provenienti da qualsiasi sbocco del Gottardo. Nel caso si presentasse persona sanitariamente sospetta, d’accordo con il ricevitore della dogana, occorreva farla visitare dal medico e, ove si ritenesse opportuno, tenerla sotto “sequestro” con tutte le precauzioni del caso. Per essere in grado di applicare le norme prefettizie veniva costituito un lazzaretto in Quarcino nell’ampio fabbricato con annesso giardino e dipendenze, di proprietà dei Conti Reina. Ciò per poter trattenere in quarantena le persone provenienti dalla Svizzera e ritenute sospette. Nonostante che si trattasse di accudire malati infettivi o presunti tali, ben quattordici comunisti si offrirono per assumere servizio nel locale di quarantena.
A quanto pare il contagio andava diffondendosi, visti i provvedimenti presi dalle autorità sanitarie nel luglio 1884. Veniva infatti stabilito un.cordone sanitario, mettendo a guardia del lazzaretto di Quarcino dal 1° al 20 agosto, 50 fanti del 64° fanteria, dal 21 al 31 stesso mese numero 55 fanti del 43° fanteria, ai quali davano poi il cambio altri 85 fanti del medesimo corpo. Si dovette allestire in un ampio locale, di proprietà del conte Francesco Reina ed abitato dal sig. Francesco Guarisco, una cucina e provvedere oltre al vitto, anche ad alloggi per i militari.
La situazione sanitaria, divenuta allarmante a causa dell’epidemia di colera, provocò nell’agosto del 1884 alcuni contrasti fra il Sindaco di Monte Olimpinci ing. Luigi Bianchi e quello di Vergosa, sig. Giuseppe Vitali. Venne a conoscenza dell’ing. Bianchi che il Sindaco di Vergosa, con i Reali Carabinieri della Stazione di Carnerlata, ebbe ad esercitare atti di autorità nell’osteria in cima alla Costa di San Fermo, condotta da Butti Fiorenzo, osteria che dipendeva dalla giurisdizione amministrativa del Comune di Monte Olimpino, il cui Sindaco faceva rilevare al collega di Vergosa, che la Commissione Sanitaria aveva visitato tutte le case del territorio dando le disposizioni atte a prevenire qualsiasi inconveniente. Lamentandosi per l’arbitraria ingerenza in territorio non di competenza di Vergosa, il Sindaco chiudeva lo scritto dicendosi sicuro di non dover lamentare per l’avvenire simili atti, desiderando di mantenere i buoni rapporti da sempre in corso. Ribatteva vigorosamente il Sindaco di Vergosa, avvertendo che dati i critici momenti, si era solo limitato a raccomandare all’oste di ritornare il pane malcotto al fornaio, che non adoperasse per cuocere le vivande certi utensili di rame non ben stagnati, e non desse tanti cetrioli ai suoi avventori! Terminava invitando il collega a non prestare più facile orecchio alle dicerie messe in giro.

 

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