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IL CASTELLO DEI CONTI REINA

Il Castello di Quarcino fa parte solo indirettamente del Poggio di Cardina ma, poiché è situato nelle sue adiacenze, ci credemmo in dovere di andar a dare un’occhiata anche a lui. È un magnifico feudo secentesco, tutto voltato verso la vallata che da Monte Olimpino scende verso Chiasso, e appartiene ai Conti Reina. La villa consiste in un grande caseggiato tutto in pietra grigia, scoperta, con un bel portale di sarizzo, nel mezzo sormontato dallo stemma dei Reina, e davanti le fa omaggio una lunga terrazza ombreggiata da platani e cinta da un muricciolo che strapiomba sulla sottostante vallata. È indubbiamente una delle più nobili villeggiature dei nostri dintorni, di quelle che fa piacere andar di tanto in tanto a rivedere, quasi per riprendere contatto coi sereni vigorosi aspetti del nostro passato. Venendo da Monte Olimpino vi immette nel feudo una porta ad archiacuto sormontata da orgogliosi merli, e un’altra vi congeda quando uscite dalla parte opposta. Tra l’una e l’altra sta il possesso, che forse un tempo era cinto da muro tutto torno torno, ed ha rustici e campi in giro. Nel cortile d’uno di questi rustici ammirammo, in un canto, uno di quei venerandi e mastodontici torchi che usavano una volta nelle grandi ville lombarde: un enorme tronco d’albero squadrato e posto orizzontalmente su un congegno d’altre travi. La ragazza però che ci presentò questo capolavoro di torchio era una graziosa brunetta scapigliata e irruente che dimorava nel rustico. Era di natura vivacissima e mi richiamò, non so perché, una figura dl Lorenzo Lotto che avevo ammirato in non so qual Museo. Aveva un di quei volti vispi di forosette nostrane come si potevano ammirare parecchi anni fa sui nostri monti: fior di selva, giuggiole di paese. Non molto alta ma ben fatta, ravvolta in una semplice vesticciola di cotonina a fiorami, ella ci saltellava davanti, ora canzonandoci, ora aizzandoci, recitando insomma una sua particina tutta frizzi e ritrosie e animando il tutto con una parlantina inesauribile; da cavarne fuori, pensai, una nuova artista comica, piena di temperamento, tipo Merlini. E anche questa fu una delle buone scoperte del nostro pellegrinaggio a Poggio Cardina.

da “Passeggiate Lariane” di Carlo Linati – 1939-

Villa Reina

LA FILARMONICA DI MONTE OLIMPINO dal 1990 in poi…


I primi cento anni di vita della Società Filarmonica di Monte Olimpino sono brillantemente raccontati nel libro del sig. Primo Porta pubblicato nel 1991.

Ho cercato di radunare i fatti salienti che hanno riguardato la nostra Banda negli anni a seguire.

Puoi scaricare il libro cliccando qui.

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BATTAGLIE DI CONFINE…

Primi anni Cinquanta. Settant’anni fa, eppure sembra ieri. Nessun rimpianto, commozione sì, tanta. Di allora, nitide le immagini, immutati sensazioni e sentimenti. Le giornate, da adolescenti, sono piene, intense, interminabili, ma troppo brevi. Si gioca alla guerra, si scontrano le bande, ognuna con un capo. Il mio capobanda è il Peppo. Un duro, tosto anche a scuola, ha ripetuto la terza e adesso fa la quinta per la seconda volta.
Le nostre armi sono archi costruiti con rami di nocciolo, un legno particolarmente resistente ed elastico, che troviamo sulla Maiocca. Le frecce sono invece rami più sottili, sempre di nocciolo, oppure stecche di ombrello. Ognuno ha un tirasassi, una fionda. In questo caso il legno deve essere durissimo, il noce o il rubino sono ideali, l’elastico si deve poter estendere, senza tuttavia perdere forza e potenza. In tasca tutti i ragazzi hanno un “coltellino” assolutamente necessario per costruirsi arco, fionda, ed eventualmente spade di legno…
Ogni quartiere ha la sua banda con le sue regole, la sua lingua, il suo capo. Noi della piazza davanti alla dogana parliamo in italiano. Quelli di Sagnino si esprimono solo in dialetto. Sono temutissimi, quando scendono dalla collina a frotte incutono paura. Anche quelli di Chiasso hanno la loro banda, ma non partecipano mai alle guerre, preferiscono stare in pace, anche perché non potrebbero attraversare la dogana “armati” di archi e fionde… Il loro idioma è il ticinese, un dialetto meneghino bistrattato, raffreddato, indurito, ostile. Teatri di guerra sono le colline della Maiocca e di Quarcino, i boschi dalle parti del lavatoio, i dintorni dei magazzini Albarelli dove si fabbrica il ghiaccio, la “cavetta”, una discarica a cielo aperto appena dietro il cimitero di Monte Olimpino. Quando scoppia la pace, deposti tirasassi, archi e frecce, Ponte Chiasso diventa una bisca a cielo aperto in cui ci si scambiano, si perdono e si vincono figurine, biglie, francobolli, giornalini.

In via Vela c’è un bar, il “Fagiano Azzurro”, con un biliardino e un “calcio balilla”. Non è simpatico il padrone, perché ci controlla, non si fida di noi. Le nostre partite a calcio balilla sono lunghissime, e questo lo insospettisce. In realtà ha ben ragione perché un fazzoletto appositamente piazzato dentro le porte impedisce alle palline di scendere e prolunga all’infinito il tempo delle partite. Di fronte al “Fagiano Azzurro” un negozio di tessuti, più avanti la Posta e una rivendita di vini. Un ampio porticato, dove si può giocare quando piove, poi la via si riduce a un viottolo alla cui sinistra scorre la rete di confine con la Svizzera. Tra via Vela e la rete un campo pieno di sassi, il luogo preferito di strenue battaglie agli indiani con archi e frecce, e poco oltre un prato spelacchiato che si trasforma in un campo di calcio fino a quando non arriva qualche finanziere a cacciarci via perché “vicini alla rete non si può stare”.
Un giorno, allontanati in malo modo nel bel mezzo di una combattutissima partita, ci siamo nascosti tra i sassi e abbiamo assistito a un vero e proprio bombardamento di pacchetti di “bionde” (sigarette) da una parte all’altra della rete, dalla Svizzera verso l’Italia. Evidentemente la nostra presenza avrebbe disturbato il contrabbando volante.
In fondo a via Vela il lavatoio con un’acqua freschissima, appena prima del ruscello che corre verso la Svizzera. Un ponticello traballante di legno, oltre il quale lungo una strada sterrata si arriva in via Brogeda. Accanto al lavatoio, davanti al ponticello, uno spiazzo con un grande mucchio di terra finissima. È come essere al mare, in spiaggia. Siamo bravissimi a costruire percorsi di sabbia con tanto di salite, discese, ponti, che di volta in volta prendono nomi importanti: Giro d’Italia, Tour de France, Milano-Sanremo, Campionato del Mondo, Giro di Lombardia, Parigi-Roubaix…Le biglie di vetro hanno il nome dei più grandi campioni e di onesti gregari, il colore è quello delle loro marche. Il campionissimo Fausto Coppi veste bianco-celeste come il suo fido Ettore Milano, Ginettaccio Bartali ha la maglia gialla mentre il fedele Giovanni Corrieri è nel classico verde oliva della Legnano, il belga Rik Van Steenbergen, re delle volate, ne ha una iridata da campione del mondo, poi Stan Ockers, indomito, l’elegante Jean Bobet, il piccolo Jean Robic, testa di vetro, il bravo Pasquale Fornara con la sua Atala, Fiorenzo Magni, pronto ad approfittare della rivalità tra i due super-campioni, il simpatico e prominente nasone di Ferdi Kubler, campione svizzero, il bell’Hugo Koblet, che prima del traguardo si solleva dalla sella, estrae un pettinino dalla tasca e si sistema i capelli con cura…
Si gioca ore ed ore divertendosi, litigando, ridendo, prendendosi in giro. Finisce la giornata che è quasi buio con una rinfrescata al lavatoio e le donne che ci urlano di stare attenti a non sporcare i loro panni stesi ad asciugare e ci invitano ad andare a casa che è tardi.

Da “Memorie Lariane” di Renzo Romano, pubblicate dal Corriere di Como

Il giardino ebraico di Monte Olimpino

Forse molti non ne conoscono l’esistenza ed altri, forse, si sono chiesti cosa fossero quelle tombe poste lì…un po’ discoste…Il cimitero ebraico di Monte Olimpino nasce negli anni ’50. Situato nella parte a monte del Camposanto col quale ha un accesso separato, appena a sinistra dell’ingresso principale, ma è possibile accedervi anche dall’interno.


Accoglie una trentina di tombe. All’ingresso sono sepolti Joseph e Pola Frankel, di origine polacca, industriali del tessile. Le lapidi sono estremamente semplici, essenziali, a sottolineare l’uguaglianza dei defunti di fronte alla morte. Tutte recano inciso il nome del defunto, la data di morte, la professione ed eventuali suoi meriti. Spesso compare il simbolo della Menorah (candelabro a sei bracci) o del Magen David (stella a sei punte) e l’iniziale delle cinque lettere ebraiche della frase: “Sia la sua anima legata nel fascio della vita”. Non compaiono sulle lapidi fotografie o immagini della persona. Perché “nessuno deve erigere un monumento per i giusti; è il ricordo dei loro atti il loro memoriale”.
Sulle tombe nella tradizione odierna non vengono deposti fiori. È invece usanza porre sulla tomba un sasso, segno concreto e duraturo del proprio passaggio. Sono gli omaggi che i fedeli portano ai defunti, in ricordo di un’antica tradizione nata durante la fuga degli ebrei dall’Egitto nel deserto, quando i cadaveri venivano sepolti sotto cumuli di pietre per proteggerli dagli animali selvatici in quell’ambiente ostile. Si usa anche strappare da terra una zolla con qualche ciuffo d’erba attaccato per poi lasciarlo cadere dietro di sé, a simbolo della pianta che, anche se divelta, tornerà a nascere.
Fonte: Il “giardino” degli ebrei. Cimiteri ebraici del Mantovano, a cura di Anna Maria Mortori, Claudia Bonora Previdi, Firenze, Giuntina, 2008

IL POGGIO CARDINA e “GLI ATTACCHI”

Con Brunate e col Baradello è uno dei colli più famigliari che attorniano la nostra Como, anzi, ancorché poco frequentato, diremo ch’è uno dei più sottomano, dei più vicini a noi, quello verso cui par incamminata più volentieri la marcia delle nostre case, nel rapido espandersi della città. Tuttavia se è molto signorilmente popolato alla base, nella cima è ancora abbastanza puro e vergine e, grazie a Dio, quasi ignorato dalle turbe domenicali… La stradetta che da Monteolimpino s’arrampica su su fino al paese di Cardina ebbi occasione di percorrerla sovente in altri tempi, dopo il 1910, anno della morte di Carlo Dossi, scrittore e ministro plenipotenziario. Da allora più volte io mi recai a far visita alla famiglia dello scrittore, nella sua bella villa del Dosso, frequentata allora dal genio tumultuoso e demoniaco di Giampietro Lucini.

Per un buon tratto, dopo aver toccato lo storico Castello di Carnasino, la stradetta sale a ripide svolte lungo il versante meridionale del poggio, poi pianeggia un poco scorrendo in mezzo a prati e grani verso il paese, quasi per dar agio al viandante di godersi la vista di Como che da quell’altura si scopre in tutta la sua figura frontale, dominata dell’avventuroso scenario dei colli che le si dispiegano alle spalle. Dopo la portineria di Casa Dossi la strada passa davanti a Villa Splinder, dove un’epigrafe infissa nel muro di cinta ci dice che E. Splinder, Sottotenente del 156° Regg. Fanteria è morto per la patria italiana il 18 agosto 1915, nelle trincee del Carso. E infine vi depone all’ingresso della piccola frazione di Cardina. Siamo, non si scherza, a 415 metri sul livello del mare.

Villa Spindler

Le case son poche ma il paese e i suoi contorni hanno già quasi un carattere alpestre. In giro si vedono spuntar su, quasi a curiosare, le cime dei monti più lontani, vestiti d’azzurro pallido. Siamo sul poggio, siamo nella sua verde cerchia di frescura e di verde, di grani e di boschi, di silenzi e di nuvole…

Villa Sassi, rosea tra il verde, domina da un lato della piazzetta la frazione ch’è composta di poche case coloniche e di una straducola che vi gira per mezzo. Sull’architrave del portone di una di esse è infissa una curiosa targa di marmo sulla quale sta scritto: Bene Incaminata Sij, 1546, e, al di sopra, c’è un piccolo stemma raffigurante una casetta con tre finestre. Ma non sembra molto antica ed ha un bel cortile nel quale superbamente verdeggia un fico, con bell’effetto, contro una vecchia muraglia grigia.

Chiesetta Assunta

Più in là, in un altro cortile d’una di queste case coloniche, abbiamo fatto la conoscenza con due magnifici gatti, poi, sotto una vasta tettoia, buttati là alla rinfusa, con basti e gioghi appesi alle polverose travature del sottotetto e con un paio di carrettelle giubilate, di quelle che usavano un tempo quando da Cardina a Como si andava ancora col cavallo, a portar la verdura, ma che ora più nessuno le vorrebbe neanche per ferro rotto.

Vecchie carrettelle e calessi di campagna voi mi troverete sempre disposto a commuovermi sulla vostra sorte infelice, specie quando ve ne state là con le vostre stanghe all’aria, ormai buoni a niente, in un canto di questi cortilacci lombardi. E mi torna a mente il tempo in cui, regine dei lunghi cammini, correvate allegre le strade non ancora asfaltate di Lombardia, al trotto di qualche baio dalla coda prolissa o di una grigia chinea che perdeva volontieri il suo pelo nella corsa, e mandavate un curioso odore che mi feriva piacevolmente le nari: un odore di cuoio ammollato e di sudor cavallino; l’odore dei miei primi entusiasmi per la vita all’aria aperta, l’odore dei nostri viaggi d’allora, il profumo delle prime avventure, delle libere scorrerie… Quantunque più tardi, permettetemi la digressione, un tal profumo venisse sostituito col profumo ben più terribile e dolce delle prime gomme pneumatiche e della para che tramandavano le biciclette nuove nelle botteghe dei ciclisti: e non si potevano comperare perché non s’aveva soldi e ci si accontentava di andarle, così, ad annusare. Era allora il tempo, al principio del secolo, in cui, come scrive un romanziere francese, la bottiglia di seltz cominciava ad allietare col suo delizioso getto tutto il mondo occidentale. Io dirò che il profumo della bicicletta attraversò tutta la mia giovinezza come Massine attraversa la scena, quale palla di fuoco, nell’Oiseau de Feu di Strawinsky… Ma poi è venuto l’odor della benzina e della nitrocellulosa, ed ogni felicità fu perduta. Questi poveri attacchi non si osa buttarli al fuoco e d’altra parte chi mai vuol acquistarli? È certo che la loro sorte è segnata. Sorpresi dall’avvento dell’automobile nel buono della loro carriera, han dovuto eclissarsi di colpo. È triste dover andarsene così nel buono della vita, colpiti a tradimento da una coltellata nella schiena! Ricordo una pagina di Selma Lagerlóf in cui è descritta un’adunata di vecchie poderose carrozze e calessine nel cortile di una fattoria nella vecchia Svezia. È una pagina bellissima. Ella ha dato un’anima commovente a quelle antiche forme della vita campagnola. Chi ha vissuto nella prima decade del secolo sa quanto fosse gustoso volare rasoterra al trotto rapido di un purosangue e reggergli le redini sulla groppa sudata; e farsi ammirare dalla gente del paese, passando, frusta in mano, redini tese, fiore all’occhiello, schiocco sulle labbra e caldano sulle ventiquattro!

da “Passeggiate Lariane” di Carlo Linati – 1939 –