Mese: Luglio 2021

A CAVALLO DEL CONFINE – racconti per l’estate -2

LA STRANA STORIA DELLA MARCHESA VITELLESCHI (Un’escursione sul Generoso)
di Romano Venziani

«Chi? La Mata?!» Mi aveva risposto così, Nicla Belloni, quando le avevo chiesto se conosceva la marchesa Carla Nobili Vitelleschi.
Era una di quelle giornate in cui la nebbia, gonfiata dall’umidità dei pascoli, dalla Valle di Muggio si era arrampicata su lungo il pendio del Monte Generoso, abbracciandone la vetta, attorno alla quale si attorcigliava in volute vaporose. Il sentiero, dopo pochi metri, si dissolveva in quel biancore per poi scomparire del tutto, inghiottito dal nulla. All’improvviso, la giacca rossa di una donna minuta era uscita dalla bruma e mi si era piantata lì davanti, sorridente e sorpresa. Io, invece, non mi ero per niente meravigliato di trovarla lassù in quella mattinata di fine inverno. Il Generoso era la sua montagna, con qualsiasi tempo, in ogni stagione.
Avevo conosciuto Nicla qualche anno prima. Stavo realizzando un documentario sull’alpinismo al femminile e lei mi aveva accompagnato sulla cima del Poncione d’Arzo, a due passi da casa sua, per raccontarmi di quando, ancora giovane, prendeva la Lambretta e se ne andava ad arrampicare sui Denti della Vecchia o sui torrioni calcarei del Generoso. Lei e l’amica Santina Pedrini, tra le poche donne a praticare uno sport allora prettamente maschile, avevano iniziato su quelle pareti, prima di addentare le cime più alte delle Alpi.
«La Mata non l’ho mai incontrata- aveva concluso Nicla – ma conosco chi potrebbe raccontarti qualcosa».
Il mio interesse per la storia della Marchesa Vitelleschi risale al 2005, quando il Patriziato di Rovio aveva deciso di far qualcosa per salvare ciò che restava di una piccola e curiosa costruzione abbarbicata alle rocce, in cima al canalone del Baraghetto. In paese la chiamavano la Ca’ da la Mata, ma, della casa, non rimaneva che un rudere, quattro mura in cemento ben visibili dalla vetta del Generoso, guardando verso nord.
Ora che la nebbia si era dissolta, da lì lo vedevo distintamente, il diroccato, appollaiato in quel posto incredibile, come sospeso sulla parete ancora chiazzata di neve che cade a precipizio sul lago di Lugano, poco oltre la cresta su cui scorre il confine tra la Svizzera e l’Italia.
«Adesso ti mostro i documenti» mi aveva detto, qualche giorno prima Rinaldo Bagutti, aprendo la porta dell’archivio patriziale di Rovio, di cui lui, appassionato ricercatore di storia locale, era stato a suo tempo presidente. Da un faldone polveroso aveva estratto una brancata di vecchie carte, allargandole sul tavolo. Una di quelle carte era un contratto di locazione, che portava la data del 15 aprile 1929. Redatto con l’accurata grafia di quei tempi lontani, il documento rivelava che «il Patriziato di Rovio, proprietario della Cima così detta al Baraghetto, affitta alla N.D. Signora Marchesa Carla Nobili Vitelleschi di Roma… la parte inferiore culminante della Cima… per la costruzione di una casetta che la locataria s’impegna a costruire a sue spese…La locazione avrà la durata di anni 25 a partire dal primo Aprile 1929 al 31 Marzo 1954, e per il prezzo stabilito della somma di franchi 50.- pagabili ogni anno…» (1).
Seguivano due pagine fitte di condizioni e accordi, come quello che rilasciava alla Marchesa il permesso «di estrarre le pietre sul Baraghetto occorrenti per la costruzione della casetta», così come quello di installare «un parafulmini per proteggere la casa dal pericolo stesso».
Che la vicenda fosse perlomeno singolare l’avevano pensato in molti ed era anche l’opinione dell’avvocato Brenno Bertoni (2), a cui il Patriziato aveva chiesto consiglio prima di firmare il contratto. «Fare una locazione di 50 anni (3) mi sembra criticabile per un’amministrazione patriziale» aveva risposto Bertoni, il cui cruccio era però essenzialmente pecuniario. «Chi lo sa – si domandava, infatti, l’avvocato – cosa varranno 50 franchi nel 1960?».
Allora, tutti si chiedevano chi fosse la fantomatica Marchesa e per quale oscura ragione si fosse messa in testa di costruire una casa su quelle rocce martoriate dai fulmini, ma i cinquanta franchi annui erano una bella cifra in quei tempi di crisi e la transazione andò in porto, bollata come «roba da matti». E la casetta, edificata nei mesi seguenti, finì per essere chiamata «la Ca’ da la Mata».
Carla Nobili Vitelleschi era una nobildonna romana, di origini olandesi, che aveva sposato il marchese Giuseppe Nobili Vitelleschi, discendente da un antico casato del Lazio, dove la famiglia possedeva un castello nel borgo di Labro, in provincia di Rieti. Di lei si sapeva poco o nulla e la gente ne ricamava la figura e la vita con racconti immaginari e ipotesi fantasiose. La sua storia era piuttosto insolita e m’incuriosiva, a maggior ragione dopo aver visto i resti della casetta sul Baraghetto.
Il sentiero taglia il pendio sotto la vetta del Generoso, in territorio italiano, e segue l’invisibile linea di confine, indicata a intervalli regolari da cippi di granito squadrato. All’altezza di quello segnato con la cifra «23D», affacciandosi alla cresta e guardando giù, ecco «la Ca’ da la Mata», una decina di metri sotto il filo della montagna, piantata lì come un anacronistico bunker sospeso sul luccichio del lago. I muri oggi sono riparati da un tetto a volta, portato su con l’elicottero qualche anno fa (4), e si può scendere fino alla casa (a dire il vero non ne vale molto la pena) lungo un ripido canalino tra le rocce, a cui è fissata una fune di sicurezza. La prima volta che l’avevo vista, priva ancora della copertura, l’accesso era colmo di neve gelata e scendere quei pochi metri era piuttosto pericoloso, così mi ero limitato a osservarla dall’alto, chiedendomi che cosa avesse potuto spingere Carla Nobili Vitelleschi a scegliere quel luogo impervio per costruirvi una dimora.
Il suo scopo era effettivamente quello di «farsi un luogo di riposo e di tranquillità quale necessario per gli studi di filosofia religiosa a cui si dedicava», come si era giustificato all’epoca il suo legale, oppure esistevano altre misteriose ragioni? E quali?
«Tutto faceva parte di un preciso disegno strategico – mi aveva raccontato Graziano Papa (5) – Un disegno in cui gioca un ruolo significativo anche il trenino del Monte Generoso».
Inaugurata nel 1890, la ferrovia è già in fase di liquidazione un paio di anni dopo. Più tardi, con la copertura della Banca Svizzero-Americana di Lugano, e senza che il Governo cantonale si accorga di nulla, finisce nelle mani dello Stato italiano. L’Italia è particolarmente interessata al territorio ticinese, perché teme un’invasione della Svizzera da parte dell’Austria e della Germania (è il 1912 e due anni dopo scoppierà la Prima Guerra Mondiale). Un evento, questo, che minaccerebbe la sua frontiera settentrionale, perciò si premunisce allestendo i piani operativi, che contemplano l’occupazione preventiva del nostro paese. I capisaldi dell’operazione sono i valichi del Sempione, dello Spluga, del Maloia, il passo San Giacomo, la valle Monastero e il Ticino attraverso la frontiera di Chiasso (6). «L’acquisizione della ferrovia del Generoso e la costruzione nel 1929 del nido d’aquila della Marchesa Vitelleschi sul dirupo del Baraghetto, luogo di controllo del passaggio tra Maroggia e il ponte-diga di Melide – aveva concluso Papa – vanno inquadrate in quest’ottica strategica».
La «Casa della Matta» come avamposto spionistico e la sua bizzarra proprietaria agente segreto dello Stato italiano?
Le circostanze sembrerebbero suffragare l’ipotesi, ma nessun documento conosciuto la può confermare. Fatto sta che, proprio nel 1929, l’Italia fascista aggiorna i suoi piani e guarda al Ticino con occhi sempre più interessati.
Passa il tempo e mutano le alleanze e per finire, nel settembre del 1940, Mussolini (probabilmente per un accordo con Hitler) sospende i piani d’operazione concernenti la Svizzera e scrive a matita blu sul dossier della ferrovia del Generoso: «Non c’interessa più».
Nel 1940 il trenino tornerà in mano svizzera grazie all’iniziativa dei fratelli Casoni, costruttori edili ticinesi di Basilea, e l’anno seguente sarà acquistato dal lungimirante Gottlieb Duttweiler, fondatore della Migros.
Credevo di aver esaurito le informazioni, quando mi arriva una lettera di Nicla Belloni, che mi suggerisce di parlare con la sua amica Adriana. La incontro in un appartamento di Paradiso. «Era una bella donna – mi racconta – bionda, con splendidi occhi chiari, molto vivi. Negli anni Cinquanta-Sessanta abitava al piano di sotto. È così che l’ho conosciuta».
Mi mostra due libri, uno è il Bhagavadgītā, testo sacro dell’induismo, e l’altro un saggio sul buddismo. Entrambi sono fitti di annotazioni in francese. «Me li ha dati lei – continua Adriana – si occupava di filosofia e aveva anche molti altri volumi d’archeologia e sulle religioni orientali».
Probabilmente gli stessi che accompagnano le giornate e le notti solitarie che Carla Nobili Vitelleschi trascorre tra le rocce del Generoso. Ad Adriana racconta che una volta voleva rimanere lassù anche durante l’inverno, ma la stufetta a petrolio continuava a spegnersi e, per non morir di freddo, era scesa a piedi nella neve lungo i binari della ferrovia, arrivando sfinita a Capolago.
La Marchesa sale regolarmente nel rifugio del Baraghetto fino al 1943, poi se ne perdono le tracce, mentre l’affitto è pagato tramite un avvocato di Locarno, fino allo scadere del contratto nel 1954.
Ed è a quell’epoca che rispunta a Lugano. È ormai una signora anziana, riservata, con pochissimi amici, tra cui l’ex consigliere federale Enrico Celio. Indossa vestiti fuori moda, una lunga pelliccia consunta, legge molto e passeggia con la sua cagnetta. Poi, un giorno, dice di voler andare da amici a Losanna e scompare. Adriana viene a sapere che è all’ospedale, dove poco dopo muore. «Al funerale hanno suonato l’Alleluia di Haendel – conclude Adriana – e le sue ceneri vennero gettate nel Cassarate».
La Marchesa Carla Nobili Vitelleschi esce di scena così. Ritorna alla terra attraverso il fluire delle acque, per suo desiderio, come a voler riprodurre un antico rituale che si rifà a quelle religioni orientali, il cui studio, diceva lei, l’aveva portata sul Generoso.
E sul Generoso sono tornato anch’io, in un’incerta giornata di fine estate. Il cielo è infagottato in una cappa grigia e compatta, che si stempera negli strati più bassi per poi stendersi sulle vallate e la pianura con un leggero velo bianchiccio.
Sono salito con un trenino stracarico di turisti attratti dal «Fiore di pietra» dell’architetto Botta, che ora affollano il ristorante e la terrazza panoramica, ma che spariranno come d’incanto appena ci si allontana dalla cima. Volevo rivedere la «Ca’ da la Mata» e poi scendere verso Scudellate, in Valle di Muggio, da dove infine tornare con i mezzi pubblici a Capolago.
Passo a salutare Marisa e Adriano Clericetti, che sul Generoso vivono da cinque generazioni. Hanno le mucche e i maiali e gestiscono l’agriturismo Latte Fresco, dove ci si può rifocillare e comperare formaggio, formaggini e salumi.
Così, tra quattro chiacchiere, accenno alla Marchesa Vitelleschi e l’Adriano mi fa: «me la ricordo, la Mata, non dormiva al Baraghetto, stava lì di giorno, ma per la notte aveva una camera nell’albergo. Nessuno poteva entrarci, le mandavano su la posta in un cesto, con una corda, che lei recuperava dalla finestra».
Il sole ha fatto timidamente capolino e così mi avvio giù per il sentiero, una traccia appena percettibile nel verde degli ampi pascoli, che già esibiscono le prime pennellate di colori autunnali. Dallo zaino, a ogni passo, esce un cri-cri sommesso del sacchetto di plastica in cui ho avvolto con cura i formaggini di Marisa.
Davanti agli occhi, la valle di Muggio, laggiù, con i suoi villaggi come sospesi tra la strada e i boschi, che hanno ormai colonizzato i fianchi della montagna e incalzano, quasi a volerli fagocitare, i nuclei abitati (7). Più a sud, oltre l’ultima increspatura delle Prealpi, la pianura padana, che si distende, perdendosi in una densa caligine.
Sui prati spuntano i gendarmi, sentinelle immobili e silenziose, che scrutano l’orizzonte come a voler proteggere la montagna da misteriosi assalitori. Li hanno eretti gli alpigiani, pazientemente, con le pietre raccolte ripulendo i pascoli.
Dò un’occhiata all’alpe di Génor incollato al ripido pendio. Un tempo ospitava una decina di famiglie, oggi è rimasto solo Marco Cereghetti.
«Fin che la salute tiene rimango qui, perché amo questa terra, poi bisognerà rassegnarsi» mi aveva detto una ventina d’anni fa, quando lo avevo trovato lì, seduto all’ombra, con la schiena appoggiata ai sassi della cascina. Alcune capre sonnecchiano sui muretti, altre si rincorrono giocando. Segno che Marco resiste. Nonostante l’età, non si è ancora rassegnato ad abbandonare la montagna. Non lo vedo, ma riparto contento.
Il sentiero che va verso l’alpe di Nadig, fiancheggiato da un’incredibile recinzione di piode verticali, è come la lunga cicatrice di un’antica ferita che ha inciso di traverso il pendio. Gli alberi sono radi e alti, riuniti in piccole macchie di verde. Gli alpigiani li hanno piantati per proteggere le nevère dal caldo dell’estate.
Ogni volta che vedo questi ingegnosi «frigoriferi» ante-litteram, provo una profonda ammirazione per gli abili costruttori, che hanno saputo accordare le pietre in modo tale da creare manufatti di estrema precisione e armonia. Ho contato sei nevère, una più bella dell’altra, tra Génor e Nadig.
Mancano ancora poco meno di quattrocento metri di dislivello, prima di raggiungere Scudellate, che, visto da quassù, sembra ormai a portata di mano, o meglio… di piedi.

Note
1 – Carla Nobili Vitelleschi, tramite il suo avvocato Aldo Finocchi, aveva versato al Patriziato di Rovio un anticipo di 500 franchi, pari a dieci anni di affitto.
2 – Brenno Bertoni (Lottigna 1869-Lugano 1945) è stato giurista, giornalista e politico. Esponente di spicco della cultura e della politica ticinese e svizzera, tra i protagonisti della rivoluzione radicale del 1890, Bertoni sarà per molti anni deputato in Gran Consiglio, nel Consiglio Nazionale e in quello degli Stati. Era fratello di Mosè Bertoni (uomo di scienza, scrittore e anarchico bleniese, fondatore della colonia di Puerto Bertoni, in Paraguay).
3 – La durata auspicata in un primo momento dalla Marchesa era di 50 anni.
4 – La copertura è stata progettata dall’architetto Marco Conza, presidente del Patriziato di Rovio.
5 – Graziano Papa (classe 1919) è avvocato, notaio e uomo di cultura. Per molto tempo è stato la coscienza ecologica del Canton Ticino. Presidente di Pro Natura per parecchi anni, è un attento analista dei problemi pianificatori in merito ai quali è intervenuto con autorità, bloccando, in varie occasioni, progetti devastanti per l’ambiente e il paesaggio ticinese.
6 – I documenti sono contenuti in: Alberto Rovighi, Un secolo di relazioni militari tra Italia e Svizzera 1861-1961, Roma, Stato maggiore dell’Esercito, Ufficio storico, 1987.
7 – Il Museo etnografico della Valle di Muggio, a Cabbio, espone una serie di fotografie aeree, d’epoca e recenti, che mostrano l’espansione della superficie boschiva e la trasformazione del paesaggio negli ultimi settant’anni. (http://www.mevm.ch)

A CAVALLO DEL CONFINE – racconti per l’estate

MULATTIERA DI NON SOLO PANE (piccolo racconto per “ricordare”)
di Cesare Puppi – a cura del Cap. c.a. Gesualdo Greco della Sezione Anfi di Como

Luis –  … ‘Velina … o ‘Velina! Set isturna né! Sturna cum’é ‘na tapa!
La nostra infatti, braccia abbandonate sul grembo e faccia inclinata di lato, che sembrava staccarsi di momento in momento dal corto collo, rispose al richiamo, come se quella voce risuonasse dentro la valle del torrente, là, appena fuori l’abitato.
Ma bastò quell’attimo, perché in lei scattasse immediato l’obbligo della risposta. Ciò era dovuto al cliente, all’avventore rompiscatole, che interrompeva alla ‘Velina le sue cavalcate fantastiche, incartate nei meandri delle giornate sempre più logoranti. Con voce stentatamente calma ma bonaria chiese:
‘Velina – Sa voett … Lùis! Set mia a post, stasira, eh? El mia ura da ‘nan in su?
Luis – Eh! Ammo ‘n pezètt nè. Voet casciam in su, su par qui brich là, con la gola seca? … dai, fam un piaseè, voiuman giò un bicceer da quel ròss; anzi fà inscì, fan una taza, parchè ho fai la scena cunt l‘aij tridaà sura ’na slepa da lard nostran cha ma daj al Poldu Guz.
Gli scappò un rutto, al Lùis …. ma tant’è, perché, ne la ‘Velina, ne gli altri avventori stipati nel piccolo locale, se ne scandalizzarono. La ‘Velina si alzò a fatica, levando il suo peso dalla vecchia seggiola impagliata, si diresse alla vetrinetta ricavata da una piccola parete, ove erano riposte alcune bottiglie già iniziate. Contenevano piccole quantità di grappa, di cedro o di vermut. Non mancava il Marsala, quello vero, quello che il fidato negoziante faceva venire dalla Sicilia. Questa particolarità vantava la ‘Velina e, grazie alla fiducia del suo fornitore, nel suo mini bar cucina-osteria, si sorseggiavano solo alcoolici speciali.
E vino: vino che oggi definiremmo D.O.C., ma doc che più doc non si può. Infatti, quando arrivava la fornitura stagionale, il vino era contenuto in damigiane, che riposte nella cantina ricavata sotto casa, tra i muri di sassi di Moltrasio e anfratti scavati, quasi fosse un crotto, riceveva l’effetto magico dell’aumento delle sue peculiarità!!! Gusto, profumo, stagionatura.
Il nettare, in quell’ambiente naturale e privilegiato, se ne stava in buona compagnia, tra casse di birra, salami ed affini, ma soprattutto tra quelle forme di formaggio nostrano, madide e trasudanti di buona muffa che gli conferivano eccezionali proprietà.
Si capisce allora, perché, quelle persone, “chi balosson”, ammesse in quel esercizio particolare, se la tiravano delicatamente tra un bicchiere e l’altro, accompagnandosi con generosi sandwich che, fuori orario di negozio, la ‘Velina, un po’ di straforo e controvoglia, forniva ai frequentatori. Lasciamo ora questi stuzzicanti componenti, per riprendere il punto.
Il Lùis era un ‘’tipo” che al vedersi non suscitava alcunché di strano per via di particolari caratteristiche. Il viso un po’ allungato, con delle pieghe visibili trasversali, naso ben sviluppato che i baffettoni gli minimizzavano, sopracciglioni che facevano da cornice a due occhi chiari, vivaci e guardinghi; il tutto te lo mostrava sveglio, acuto, attento, volpino come lo sono la maggior parte delle persone di montagna.
Ma allora, che c’è di così strano e di arcano in questa narrazione, ove i personaggi, in fin dei conti, hanno vissuto come tanti, in questa zona chiamata Val d’lntelvi?
C’è che questo contesto, per la cronaca, ci riporta agli anni 50-60 del XX secolo.
La popolazione attiva poggiava principalmente sulle attività apprezzate nel campo dell’edilizia: muratori, piastrellisti, imbianchini e stuccatori. Eredi dei famosi “Maestri Intelvesi”. Purtroppo la mancanza di lavoro li costringeva ad emigrare, principalmente in Svizzera, ma anche in Francia e Germania.
‘Velina – I faseva sù al so’ fagutin e i partiva par Zurig, Lucerna, Basilea o anca in sul Vallees.
Giacum – Se stava via ‘na stagion senza fa nessuna scapadela foera via. A menu che gh’eva ’na quai situazion grama.
Questa era la cornice che, nel bene e nel male, permetteva alle famiglie di sbarcare il lunario, accantonando anche degli “spiccioli” per rafforzare la propria posizione. Per quel che riguardava le altre attività maschili o femminili, ci si poteva accontentare della scarsa offerta di lavoro nella zona attorno alla valle e/o nel capoluogo.
Nonostante ciò, il fabbisogno era superiore e le risorse ancora insufficienti per un accettabile benessere. Allora, per farla breve e tornare ai nostri personaggi, ci ritroviamo nella famosa situazione dell’attività contrabbandiera, nella quale si specchiava una maggior possibilità di guadagno. Facile ed illecito? Diremmo: eticamente esercitato? Il fatto è che il contrabbando è sempre esistito e nella fattispecie, ci si passava sopra anche con la coscienza. Conseguentemente lo Stato arginava il problema, creando la G.d.F. – Guardia di Finanza – insediata sui confini con caserme di compagnie militari.
Giacum – Dal Bisbin al Generus, lung ul senteé al cunfin tra l’Italia e la Svizzera, dalla “Val di Mugg” dent ul pansciun che al va sù ad Uriment, per pò vignì giò dalla Val Mara, de bricoj, “al sac”, na passavan un bel po’. La caserma de Prabell, duve fasevumm ul noster rifurniment sura Casasc, al “pian di Alp”, “sota ‘l Sass Gurdona” la distava dal paes circa tri – quatar chilometri.
Luis – Per i polentun della bassa (Milanes e Brianzòo) che, per prim in qui ann, sa permettevan una vacanza, una sgambada, sostenuda in quel sit, ghè vourevan pressapoc… doò ur. Del rest, per grazia del Signur, i gh’ eva l’aria bona, ca la guariss i polmon.
Mi accorgo che è facile perdere il filo in questo racconto, anzi direi anche perdere la strada, attratti da quei contorni invitanti che si incontrano cammin facendo.
Quella nebbiolina avvolgente stesa su fazzoletti di prato, le volute di fumo grigiastre di qualche baita d’alpeggio, segnale di presenza umana; il cinguettio incalzante di invisibili piumati nascosti tra le faggete.
Giacum – E sù in ciel, vulava senza pressa la pujana, a cuntrulaà da lì quel che capitava, intant che numm rivavum alla nostra caserma, quella del Pian di Alp.
Tutto questo andava scritto, doverosamente, per addentrarci sempre più in quell’insieme di “cose e di odori” che impregnavano l’aria.
Ci “abitavano” credo, dai quattro ai sei ragazzi, giovani, paracadutati in un luogo a loro imposto, sempre per quella maledetta carenza di lavoro, che al sud era molto pesante.
Così, tra quattro mura, si viveva in comunità con scambi di parlate e dialetti intrecciati; pugliesi, campani, siculi, calabresi. Si cucinava a turno, si lavava e si cuciva. Si passava qualche ora libera ascoltando la radio o scrivendo a casa. C’era poi la faticaccia del lavoro, basato sulla perlustrazione e sui controlli delle segnalazioni. Di giorno o di notte, bel tempo o cattivo tempo. Era guadagnarsi il pane. E non solo: ma anche il latte, la carne, le verdure e tutte ciò che serviva per la loro autonomia.
E presso quale bottega, se non quella della ‘Velina, fare i rifornimenti?
‘Velina – Ma come se faseva a fàa rivàa la roba a quei fieou? I “burlandi” – i finanzier – stavan rintanàa per dì e dì in quella càa là, impegnàa in una sfida tra guardi e spallun?
Ecco irrompere la figura del nostro Lùis, il portapane, l’uomo cavallo, l’uomo che sostituiva la jeep, l’uomo del pane quotidiano, l’uomo che giornalmente raggiungeva la caserma.
Giacum – Cun scià ‘l zaino in spala, ul “Lùis da la Pruvidenza”, come spuntava l’alba, al rivava adasi, adasi. E numm lì a speciall e a festeggiall.
In quell’incontro, forse sparivano tutti gli antagonismi, le differenze di posizione tra legalità e bisogni. Il Lùis, ora slacciava il pesante fardello, ne uscivano scatolette di carne e tonno, sacchetti di pasta e riso. E dentifricio, lucido da scarpe, lamette, birrette e quant’altro. In coro, in tutti i dialetti, echeggiava un “grazie” Lùis. Che alla fine, porgeva l’elemento più atteso che stava racchiuso in qualche busta sgualcita, ma tanto desiderata, notizie da casa: papà, mamma, fratelli che inviavano gli ultimi commenti. Su qualche viso, però non compariva il compiacimento, bensì si leggeva la nota dolente per qualcosa che non andava …
Asciugandosi alla belle meglio il sudore ormai rappreso:
Luis – Pa ‘n còò l’e naia… su, tiree ‘nzema i tuchit da idei ca v’e restaa e intant ca ’mbevi giò un grapin, ca ma tira su, ma prepari a nan. Parché ‘pena rivi a cà, voo a fà fee. Vurariss mia che ma catass al brutt temp.
I giovani ricomponevano l`ordine delle cose, grati per il piacevole intervallo e scherzosamente rispondevano: “agli ordini signor comandante!”. Una piccola risata concludeva la spedizione ed ognuno riprendeva la sua occupazione. Nel ripartire sulla via del ritorno, Lùis si cacciava in bocca l’affezionata “alfa” (ma dov’erano le bionde’?) e col suo passo felpato scendeva al paese. Chissà, forse in cuor suo si sentiva una “staffetta zufolata”, che si allungava fin dentro la macchia, ove gli faceva “verso” il cuculo confortandolo nel cammino.

Il Luis, entrando nel localino della ‘Velina, tappa quotidiana insostituibile e di grande supporto morale, mostrava quella sera una seriosità inconsueta. Molti occhi si rivolsero ai suoi, per indagare con discrezione quale potesse essere il motivo di quello stato.
Luis – Ciau a tucc. L’e mia la sira bona, stasira; la mia pinin al g’ha la fevra forta e sem mia da che part la vee. Al duttur, la mia pudù vedela, parchè le fòò in vall a fa cumpraà ‘na dona.
La ‘Velina si avvicina e cerca di rincuorarlo con spontaneità
‘Velina – Sta tranquill, vee. Se la too dona la g`ha bisogn, dic da famal savee. Mò, dimm su: veet in su subit?
Luis – Par forza … ma toca mì; ma g’u la pell dùra ma adess, vori buttà via la gramigna e tirà innanz. Scià…’Velina, bevemigam giò un biccer, quel solit, ta racumandi. La pò vess la mia medesina par fa giràà ben al mutur.
ll ciocco, scoppiettante nel camino, mandava scintille che salivano per la cappa; quel calore sembrava assopire anche i pensieri, oltre ai movimenti, degli ospiti serali.
Giacum – Scopa da sett; dai Pepp che stavolta ga la fem trà, a chi dùù lì.
Erano quattro i giocatori, posizionati in un angolino, che a tratti alzavano la voce, incapaci di trattenere quella ritualità vetusta di giocatori incalliti. Tutto era in buona fede, alla fine, si finiva in gloria. Luis, che osservava la scena, sorseggiando il suo vino, intervenne dicendo:
Luis – O gent, sa mal permetuff, va uffrisi da beev, in mezz ai dispiasee sa pò truvà quaicoss da bon. Al mè ziu, da dent a San Gall, al ma mandai a di, che pa’ Nataal al vee fòra cun scia un poò da franch svizar, c’al vòò famm un prestit, par fà ca poda slargà la stala. E alura, grazie ziu, an bevum giò un fiaa insema ai noss’amiss…salùùt.
Veramente una bella azione, quella del Lùis, che ora sembrava essersi tolto un poco di quel fardello visto in precedenza. Anzi cogliendo scherzosamente un altro inghippo dei giocatori, aizzò:
Luis – Varda … Varda … Giacum! Ch’el Toni li ta frega la napula, staach attent.
La ‘Velina, che per pochi secondi, si era seduta e stava crollando dal sonno, fu svegliata dal potente starnuto uscito dalla gola del Luis. Spruzzi a parte, era quasi “saltata” via.
‘Velina – Che cavul d’un fregiùù ta g’hee, che stremizi… un’oltra volta, al mè caar Lùis sonum al campanell.
Scoppiarono in una risata con adeguato commento.
Luis – Al mè starnùù l’é bon segn, ‘Velina. L’è mei d’un oroscopo.
Dopo questo intermezzo sonoro, anche i ritardatari, al volgere delle ore, si  apprestavano a rincasare. Per la povera ‘Velina, sarebbe andata ancora per le lunghe.
Riassettare, lavare, preparare l’approssimativo rendiconto. Aveva incominciato a piovere. Il Lùis per il suo ruolo, era ancora agli ultimi preparativi. Però il suo fieno era in cascina, al sicuro. Ora toccava a lui: ricomporsi, controllare la roba preparata dalla ‘Velina, isolare dalla pioggia lo zaino, infine chiederle:
Luis – ‘Velina, mett dai tùtt …’et metùù dent la spuleta negra pal brigadier .. e i culzett e i fazulitt…’Set brava. Bon. A l’ura an voo: duman, ta porti i furmagiit da cavra, quii ca fa la Maria d’Erbonne. Ciau, ‘Velina …. e grazia da tutch. E anca ti van in lecc, ca ta set ischtraca.
Si era assestato ben bene la pesante zavorra, calcandosi il passamontagna fino alle orecchie, così imbastito, col suo fedele tabarro, uscì. La notte accompagnava i suoi passi sulla sconnessa mulattiera; per lui non era un problema. Con la sua particolare andatura, sapeva evitare tutti gli ostacoli.
Del resto, era una vita che faceva il pendolare; figurarsi … quella sera era una sera somigliante alle precedenti. Anzi, da come era andata la giornata, si sentiva addosso quel po’ di euforia pregnante, che del resto non aveva nascosto là, dalla ‘Velina.
Forse era anche il nero notturno che sembrava sciogliersi negli invisibili, piccoli rigagnoli che la pioggia andava formando sul sentiero.
E la ‘Velina? Dove abbiamo lasciato quella donna nonché mamma, che incarnava la pazienza, la conoscenza, la saggezza, che i figli di questi monti irradiano, orgogliosi delle proprie capacità. Aveva controllato ancora una volta che gli ultimi ritardatari rincasassero e prima di tirare il cigolante chiavistello che dava sicurezza, tese l’orecchio, cercando anche lei la lieve armonia della pioggerella.
‘Velina – Tutt a post! Anca in cò hu faa ul me duver.
Si disse: e mentre il rintocco del campanile batteva l’una, tirò finalmente un bel sospiro.