A CAVALLO DEL CONFINE – racconti per l’estate

MULATTIERA DI NON SOLO PANE (piccolo racconto per “ricordare”)
di Cesare Puppi – a cura del Cap. c.a. Gesualdo Greco della Sezione Anfi di Como

Luis –  … ‘Velina … o ‘Velina! Set isturna né! Sturna cum’é ‘na tapa!
La nostra infatti, braccia abbandonate sul grembo e faccia inclinata di lato, che sembrava staccarsi di momento in momento dal corto collo, rispose al richiamo, come se quella voce risuonasse dentro la valle del torrente, là, appena fuori l’abitato.
Ma bastò quell’attimo, perché in lei scattasse immediato l’obbligo della risposta. Ciò era dovuto al cliente, all’avventore rompiscatole, che interrompeva alla ‘Velina le sue cavalcate fantastiche, incartate nei meandri delle giornate sempre più logoranti. Con voce stentatamente calma ma bonaria chiese:
‘Velina – Sa voett … Lùis! Set mia a post, stasira, eh? El mia ura da ‘nan in su?
Luis – Eh! Ammo ‘n pezètt nè. Voet casciam in su, su par qui brich là, con la gola seca? … dai, fam un piaseè, voiuman giò un bicceer da quel ròss; anzi fà inscì, fan una taza, parchè ho fai la scena cunt l‘aij tridaà sura ’na slepa da lard nostran cha ma daj al Poldu Guz.
Gli scappò un rutto, al Lùis …. ma tant’è, perché, ne la ‘Velina, ne gli altri avventori stipati nel piccolo locale, se ne scandalizzarono. La ‘Velina si alzò a fatica, levando il suo peso dalla vecchia seggiola impagliata, si diresse alla vetrinetta ricavata da una piccola parete, ove erano riposte alcune bottiglie già iniziate. Contenevano piccole quantità di grappa, di cedro o di vermut. Non mancava il Marsala, quello vero, quello che il fidato negoziante faceva venire dalla Sicilia. Questa particolarità vantava la ‘Velina e, grazie alla fiducia del suo fornitore, nel suo mini bar cucina-osteria, si sorseggiavano solo alcoolici speciali.
E vino: vino che oggi definiremmo D.O.C., ma doc che più doc non si può. Infatti, quando arrivava la fornitura stagionale, il vino era contenuto in damigiane, che riposte nella cantina ricavata sotto casa, tra i muri di sassi di Moltrasio e anfratti scavati, quasi fosse un crotto, riceveva l’effetto magico dell’aumento delle sue peculiarità!!! Gusto, profumo, stagionatura.
Il nettare, in quell’ambiente naturale e privilegiato, se ne stava in buona compagnia, tra casse di birra, salami ed affini, ma soprattutto tra quelle forme di formaggio nostrano, madide e trasudanti di buona muffa che gli conferivano eccezionali proprietà.
Si capisce allora, perché, quelle persone, “chi balosson”, ammesse in quel esercizio particolare, se la tiravano delicatamente tra un bicchiere e l’altro, accompagnandosi con generosi sandwich che, fuori orario di negozio, la ‘Velina, un po’ di straforo e controvoglia, forniva ai frequentatori. Lasciamo ora questi stuzzicanti componenti, per riprendere il punto.
Il Lùis era un ‘’tipo” che al vedersi non suscitava alcunché di strano per via di particolari caratteristiche. Il viso un po’ allungato, con delle pieghe visibili trasversali, naso ben sviluppato che i baffettoni gli minimizzavano, sopracciglioni che facevano da cornice a due occhi chiari, vivaci e guardinghi; il tutto te lo mostrava sveglio, acuto, attento, volpino come lo sono la maggior parte delle persone di montagna.
Ma allora, che c’è di così strano e di arcano in questa narrazione, ove i personaggi, in fin dei conti, hanno vissuto come tanti, in questa zona chiamata Val d’lntelvi?
C’è che questo contesto, per la cronaca, ci riporta agli anni 50-60 del XX secolo.
La popolazione attiva poggiava principalmente sulle attività apprezzate nel campo dell’edilizia: muratori, piastrellisti, imbianchini e stuccatori. Eredi dei famosi “Maestri Intelvesi”. Purtroppo la mancanza di lavoro li costringeva ad emigrare, principalmente in Svizzera, ma anche in Francia e Germania.
‘Velina – I faseva sù al so’ fagutin e i partiva par Zurig, Lucerna, Basilea o anca in sul Vallees.
Giacum – Se stava via ‘na stagion senza fa nessuna scapadela foera via. A menu che gh’eva ’na quai situazion grama.
Questa era la cornice che, nel bene e nel male, permetteva alle famiglie di sbarcare il lunario, accantonando anche degli “spiccioli” per rafforzare la propria posizione. Per quel che riguardava le altre attività maschili o femminili, ci si poteva accontentare della scarsa offerta di lavoro nella zona attorno alla valle e/o nel capoluogo.
Nonostante ciò, il fabbisogno era superiore e le risorse ancora insufficienti per un accettabile benessere. Allora, per farla breve e tornare ai nostri personaggi, ci ritroviamo nella famosa situazione dell’attività contrabbandiera, nella quale si specchiava una maggior possibilità di guadagno. Facile ed illecito? Diremmo: eticamente esercitato? Il fatto è che il contrabbando è sempre esistito e nella fattispecie, ci si passava sopra anche con la coscienza. Conseguentemente lo Stato arginava il problema, creando la G.d.F. – Guardia di Finanza – insediata sui confini con caserme di compagnie militari.
Giacum – Dal Bisbin al Generus, lung ul senteé al cunfin tra l’Italia e la Svizzera, dalla “Val di Mugg” dent ul pansciun che al va sù ad Uriment, per pò vignì giò dalla Val Mara, de bricoj, “al sac”, na passavan un bel po’. La caserma de Prabell, duve fasevumm ul noster rifurniment sura Casasc, al “pian di Alp”, “sota ‘l Sass Gurdona” la distava dal paes circa tri – quatar chilometri.
Luis – Per i polentun della bassa (Milanes e Brianzòo) che, per prim in qui ann, sa permettevan una vacanza, una sgambada, sostenuda in quel sit, ghè vourevan pressapoc… doò ur. Del rest, per grazia del Signur, i gh’ eva l’aria bona, ca la guariss i polmon.
Mi accorgo che è facile perdere il filo in questo racconto, anzi direi anche perdere la strada, attratti da quei contorni invitanti che si incontrano cammin facendo.
Quella nebbiolina avvolgente stesa su fazzoletti di prato, le volute di fumo grigiastre di qualche baita d’alpeggio, segnale di presenza umana; il cinguettio incalzante di invisibili piumati nascosti tra le faggete.
Giacum – E sù in ciel, vulava senza pressa la pujana, a cuntrulaà da lì quel che capitava, intant che numm rivavum alla nostra caserma, quella del Pian di Alp.
Tutto questo andava scritto, doverosamente, per addentrarci sempre più in quell’insieme di “cose e di odori” che impregnavano l’aria.
Ci “abitavano” credo, dai quattro ai sei ragazzi, giovani, paracadutati in un luogo a loro imposto, sempre per quella maledetta carenza di lavoro, che al sud era molto pesante.
Così, tra quattro mura, si viveva in comunità con scambi di parlate e dialetti intrecciati; pugliesi, campani, siculi, calabresi. Si cucinava a turno, si lavava e si cuciva. Si passava qualche ora libera ascoltando la radio o scrivendo a casa. C’era poi la faticaccia del lavoro, basato sulla perlustrazione e sui controlli delle segnalazioni. Di giorno o di notte, bel tempo o cattivo tempo. Era guadagnarsi il pane. E non solo: ma anche il latte, la carne, le verdure e tutte ciò che serviva per la loro autonomia.
E presso quale bottega, se non quella della ‘Velina, fare i rifornimenti?
‘Velina – Ma come se faseva a fàa rivàa la roba a quei fieou? I “burlandi” – i finanzier – stavan rintanàa per dì e dì in quella càa là, impegnàa in una sfida tra guardi e spallun?
Ecco irrompere la figura del nostro Lùis, il portapane, l’uomo cavallo, l’uomo che sostituiva la jeep, l’uomo del pane quotidiano, l’uomo che giornalmente raggiungeva la caserma.
Giacum – Cun scià ‘l zaino in spala, ul “Lùis da la Pruvidenza”, come spuntava l’alba, al rivava adasi, adasi. E numm lì a speciall e a festeggiall.
In quell’incontro, forse sparivano tutti gli antagonismi, le differenze di posizione tra legalità e bisogni. Il Lùis, ora slacciava il pesante fardello, ne uscivano scatolette di carne e tonno, sacchetti di pasta e riso. E dentifricio, lucido da scarpe, lamette, birrette e quant’altro. In coro, in tutti i dialetti, echeggiava un “grazie” Lùis. Che alla fine, porgeva l’elemento più atteso che stava racchiuso in qualche busta sgualcita, ma tanto desiderata, notizie da casa: papà, mamma, fratelli che inviavano gli ultimi commenti. Su qualche viso, però non compariva il compiacimento, bensì si leggeva la nota dolente per qualcosa che non andava …
Asciugandosi alla belle meglio il sudore ormai rappreso:
Luis – Pa ‘n còò l’e naia… su, tiree ‘nzema i tuchit da idei ca v’e restaa e intant ca ’mbevi giò un grapin, ca ma tira su, ma prepari a nan. Parché ‘pena rivi a cà, voo a fà fee. Vurariss mia che ma catass al brutt temp.
I giovani ricomponevano l`ordine delle cose, grati per il piacevole intervallo e scherzosamente rispondevano: “agli ordini signor comandante!”. Una piccola risata concludeva la spedizione ed ognuno riprendeva la sua occupazione. Nel ripartire sulla via del ritorno, Lùis si cacciava in bocca l’affezionata “alfa” (ma dov’erano le bionde’?) e col suo passo felpato scendeva al paese. Chissà, forse in cuor suo si sentiva una “staffetta zufolata”, che si allungava fin dentro la macchia, ove gli faceva “verso” il cuculo confortandolo nel cammino.

Il Luis, entrando nel localino della ‘Velina, tappa quotidiana insostituibile e di grande supporto morale, mostrava quella sera una seriosità inconsueta. Molti occhi si rivolsero ai suoi, per indagare con discrezione quale potesse essere il motivo di quello stato.
Luis – Ciau a tucc. L’e mia la sira bona, stasira; la mia pinin al g’ha la fevra forta e sem mia da che part la vee. Al duttur, la mia pudù vedela, parchè le fòò in vall a fa cumpraà ‘na dona.
La ‘Velina si avvicina e cerca di rincuorarlo con spontaneità
‘Velina – Sta tranquill, vee. Se la too dona la g`ha bisogn, dic da famal savee. Mò, dimm su: veet in su subit?
Luis – Par forza … ma toca mì; ma g’u la pell dùra ma adess, vori buttà via la gramigna e tirà innanz. Scià…’Velina, bevemigam giò un biccer, quel solit, ta racumandi. La pò vess la mia medesina par fa giràà ben al mutur.
ll ciocco, scoppiettante nel camino, mandava scintille che salivano per la cappa; quel calore sembrava assopire anche i pensieri, oltre ai movimenti, degli ospiti serali.
Giacum – Scopa da sett; dai Pepp che stavolta ga la fem trà, a chi dùù lì.
Erano quattro i giocatori, posizionati in un angolino, che a tratti alzavano la voce, incapaci di trattenere quella ritualità vetusta di giocatori incalliti. Tutto era in buona fede, alla fine, si finiva in gloria. Luis, che osservava la scena, sorseggiando il suo vino, intervenne dicendo:
Luis – O gent, sa mal permetuff, va uffrisi da beev, in mezz ai dispiasee sa pò truvà quaicoss da bon. Al mè ziu, da dent a San Gall, al ma mandai a di, che pa’ Nataal al vee fòra cun scia un poò da franch svizar, c’al vòò famm un prestit, par fà ca poda slargà la stala. E alura, grazie ziu, an bevum giò un fiaa insema ai noss’amiss…salùùt.
Veramente una bella azione, quella del Lùis, che ora sembrava essersi tolto un poco di quel fardello visto in precedenza. Anzi cogliendo scherzosamente un altro inghippo dei giocatori, aizzò:
Luis – Varda … Varda … Giacum! Ch’el Toni li ta frega la napula, staach attent.
La ‘Velina, che per pochi secondi, si era seduta e stava crollando dal sonno, fu svegliata dal potente starnuto uscito dalla gola del Luis. Spruzzi a parte, era quasi “saltata” via.
‘Velina – Che cavul d’un fregiùù ta g’hee, che stremizi… un’oltra volta, al mè caar Lùis sonum al campanell.
Scoppiarono in una risata con adeguato commento.
Luis – Al mè starnùù l’é bon segn, ‘Velina. L’è mei d’un oroscopo.
Dopo questo intermezzo sonoro, anche i ritardatari, al volgere delle ore, si  apprestavano a rincasare. Per la povera ‘Velina, sarebbe andata ancora per le lunghe.
Riassettare, lavare, preparare l’approssimativo rendiconto. Aveva incominciato a piovere. Il Lùis per il suo ruolo, era ancora agli ultimi preparativi. Però il suo fieno era in cascina, al sicuro. Ora toccava a lui: ricomporsi, controllare la roba preparata dalla ‘Velina, isolare dalla pioggia lo zaino, infine chiederle:
Luis – ‘Velina, mett dai tùtt …’et metùù dent la spuleta negra pal brigadier .. e i culzett e i fazulitt…’Set brava. Bon. A l’ura an voo: duman, ta porti i furmagiit da cavra, quii ca fa la Maria d’Erbonne. Ciau, ‘Velina …. e grazia da tutch. E anca ti van in lecc, ca ta set ischtraca.
Si era assestato ben bene la pesante zavorra, calcandosi il passamontagna fino alle orecchie, così imbastito, col suo fedele tabarro, uscì. La notte accompagnava i suoi passi sulla sconnessa mulattiera; per lui non era un problema. Con la sua particolare andatura, sapeva evitare tutti gli ostacoli.
Del resto, era una vita che faceva il pendolare; figurarsi … quella sera era una sera somigliante alle precedenti. Anzi, da come era andata la giornata, si sentiva addosso quel po’ di euforia pregnante, che del resto non aveva nascosto là, dalla ‘Velina.
Forse era anche il nero notturno che sembrava sciogliersi negli invisibili, piccoli rigagnoli che la pioggia andava formando sul sentiero.
E la ‘Velina? Dove abbiamo lasciato quella donna nonché mamma, che incarnava la pazienza, la conoscenza, la saggezza, che i figli di questi monti irradiano, orgogliosi delle proprie capacità. Aveva controllato ancora una volta che gli ultimi ritardatari rincasassero e prima di tirare il cigolante chiavistello che dava sicurezza, tese l’orecchio, cercando anche lei la lieve armonia della pioggerella.
‘Velina – Tutt a post! Anca in cò hu faa ul me duver.
Si disse: e mentre il rintocco del campanile batteva l’una, tirò finalmente un bel sospiro.

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