Da Cardina un breve tratto vi porta più in basso al Crott del Luff, presso l’ingresso di Villa Ravasi. Ma qui la strada vi congeda, non senza avervi affidato ad un’altra stradetta che vi condurrà difilato al Crotto.
È l’unico sfamatoio del luogo e bisognerà approfittarne perché è già il tocco e la ci batte.
Il Crott del Luff appartiene a quei tipi di crotti dove il vino matura al fresco nelle viscere della montagna e dove ancora vi portano il conto scritto col gesso su di una lavagnetta.
L’ostessa, una donnetta dalle guance rifiorite, vestita di nero, è un po’ «pédica» di natura: è di quelle che quasi quasi le fate piacere a non incomodarle a servirvi e vi chiedono cosa volete con l’aria rabbiosetta d’un barboncino a cui abbiate pestata la coda. In verità a me piacciono codesti tipi. E anche mi piacque, una volta tanto, quel dovermi accontentare di uova e formaggio pensando a Sant’Antonio che si nutriva di locuste e alla vita sobria del Doge Alvise Cornaro.
Dietro la saletta c’è la cucina e dietro la cucina il crotto vero e proprio, freschissimo frigidaire naturale, dove di qua e di là stanno allineate le botti in un’ombra cavernosa romita, odorante d’umido e di mosto.
Mentre mangiavamo ebbimo anche la ventura di discorrere con un ometto che era capitato lì da Cardina per bere un bicchier di vino e leggere La Provincia. Era un vecchio giardiniere a riposo, e come entrammo un poco in confidenza con lui, venimmo a sapere ch’egli era stato addetto per molti anni al servizio dei Giardini Pubblici milanesi, al tempo, cioè, in cui tal servizio era stato affidato dal Comune al fiorista Cattaneo. Anzi il cruccio di quest’uomo, che un po’ ammalazzato si era dovuto ritirare al suo paesello, stava in ciò che sgraziatamente, per un ripicco, s’era congedato dal suo padrone qualche mese prima che il servizio dei giardini fosse passato alle dipendenze del Comune: quando, in poche parole, i giardinieri comunali entrati in ruolo, cominciavano a star bene, ad aver il pane assicurato, l’avanzamento, la pensione, ecc.
– Che sonata! – sospirava il brav’uomo. Aveva però la chiacchiera pronta, e così di parola in parola ci venne narrando del suo mestiere. Conosceva tutti i più bei giardini e le ville del lago e della provincia, perché un po’ c’era stato a servire e un po’ ci aveva amici e colleghi a lavorare. Sapeva la rava e la fava di tutti i loro proprietari, e delle loro mogli, amiche, sostanze, passioni, e i trapassi avvenuti nelle proprietà e le fortune e sfortune che le aveva colpite. Era insomma, o si dava a divedere per uno di quegli uomini lavorati da molti anni di vita milanese; di quelli che si dicono descantaa.
Ma appariva terribilmente pessimista riguardo ai signori: indignato contro i signori che lo avevano deluso nella sua devozione per la vera signorilità; contro i signori che per spensierataggine s’erano rovinati così pel gusto di sciupare, di sperperare. Con una specie di epica disperata egli si divertiva a narrarci le debolezze e i tracolli di ognuno, numerava tutte le ville ch’erano da vendere sul lago e tucc i nobell ch’erano andaa in tocc.
Il Tale? Era andato in malora perché giocava in borsa. Il Tal’ altro? Ha dovuto vendere perfino la spilla della cravatta per fronteggiare i debiti della moglie. Poi diceva: – Hiin adree a taià a tocc la Sucota; la Passalacqua l’ha vendùu foeura tutt el mobili, han venduu i Taverna, han venduu i Vergani, i Saporiti, i Erba…-
Storie innumerevoli di vendite, di impoverimenti passavano nella sua narrazione: storie di milioni smaltiti in un soffio, di dissipazioni inaudite. Una specie di segreta maledizione biblica pareva soffiasse dalle sue parole, contro tutto il mondo di sciori da lui amato e riverito un tempo come la bellezza stessa della terra: poiché questi sciori a cui egli aveva dedicato la sua esistenza, corrotti, infamati, disperati e squattrinati, lo avevano tradito nel suo amore. Era tutto il mondo dei fiori, delle serre, dei profumi, che stava crollando: il mondo dell’eleganza e della grazia ch’egli aveva creduto immortale, e invece… E non gliela perdonava. E adesso, e adesso?
– E adess tutt el lagh l’è de vend! – gridò alla fine allargando le braccia, impetuosamente, e scoppiando in una risata quasi diabolica.
da “Passeggiate Lariane” di Carlo Linati – 1939-