Memorie

A CAVALLO DEL CONFINE – racconti per l’estate

MULATTIERA DI NON SOLO PANE (piccolo racconto per “ricordare”)
di Cesare Puppi – a cura del Cap. c.a. Gesualdo Greco della Sezione Anfi di Como

Luis –  … ‘Velina … o ‘Velina! Set isturna né! Sturna cum’é ‘na tapa!
La nostra infatti, braccia abbandonate sul grembo e faccia inclinata di lato, che sembrava staccarsi di momento in momento dal corto collo, rispose al richiamo, come se quella voce risuonasse dentro la valle del torrente, là, appena fuori l’abitato.
Ma bastò quell’attimo, perché in lei scattasse immediato l’obbligo della risposta. Ciò era dovuto al cliente, all’avventore rompiscatole, che interrompeva alla ‘Velina le sue cavalcate fantastiche, incartate nei meandri delle giornate sempre più logoranti. Con voce stentatamente calma ma bonaria chiese:
‘Velina – Sa voett … Lùis! Set mia a post, stasira, eh? El mia ura da ‘nan in su?
Luis – Eh! Ammo ‘n pezètt nè. Voet casciam in su, su par qui brich là, con la gola seca? … dai, fam un piaseè, voiuman giò un bicceer da quel ròss; anzi fà inscì, fan una taza, parchè ho fai la scena cunt l‘aij tridaà sura ’na slepa da lard nostran cha ma daj al Poldu Guz.
Gli scappò un rutto, al Lùis …. ma tant’è, perché, ne la ‘Velina, ne gli altri avventori stipati nel piccolo locale, se ne scandalizzarono. La ‘Velina si alzò a fatica, levando il suo peso dalla vecchia seggiola impagliata, si diresse alla vetrinetta ricavata da una piccola parete, ove erano riposte alcune bottiglie già iniziate. Contenevano piccole quantità di grappa, di cedro o di vermut. Non mancava il Marsala, quello vero, quello che il fidato negoziante faceva venire dalla Sicilia. Questa particolarità vantava la ‘Velina e, grazie alla fiducia del suo fornitore, nel suo mini bar cucina-osteria, si sorseggiavano solo alcoolici speciali.
E vino: vino che oggi definiremmo D.O.C., ma doc che più doc non si può. Infatti, quando arrivava la fornitura stagionale, il vino era contenuto in damigiane, che riposte nella cantina ricavata sotto casa, tra i muri di sassi di Moltrasio e anfratti scavati, quasi fosse un crotto, riceveva l’effetto magico dell’aumento delle sue peculiarità!!! Gusto, profumo, stagionatura.
Il nettare, in quell’ambiente naturale e privilegiato, se ne stava in buona compagnia, tra casse di birra, salami ed affini, ma soprattutto tra quelle forme di formaggio nostrano, madide e trasudanti di buona muffa che gli conferivano eccezionali proprietà.
Si capisce allora, perché, quelle persone, “chi balosson”, ammesse in quel esercizio particolare, se la tiravano delicatamente tra un bicchiere e l’altro, accompagnandosi con generosi sandwich che, fuori orario di negozio, la ‘Velina, un po’ di straforo e controvoglia, forniva ai frequentatori. Lasciamo ora questi stuzzicanti componenti, per riprendere il punto.
Il Lùis era un ‘’tipo” che al vedersi non suscitava alcunché di strano per via di particolari caratteristiche. Il viso un po’ allungato, con delle pieghe visibili trasversali, naso ben sviluppato che i baffettoni gli minimizzavano, sopracciglioni che facevano da cornice a due occhi chiari, vivaci e guardinghi; il tutto te lo mostrava sveglio, acuto, attento, volpino come lo sono la maggior parte delle persone di montagna.
Ma allora, che c’è di così strano e di arcano in questa narrazione, ove i personaggi, in fin dei conti, hanno vissuto come tanti, in questa zona chiamata Val d’lntelvi?
C’è che questo contesto, per la cronaca, ci riporta agli anni 50-60 del XX secolo.
La popolazione attiva poggiava principalmente sulle attività apprezzate nel campo dell’edilizia: muratori, piastrellisti, imbianchini e stuccatori. Eredi dei famosi “Maestri Intelvesi”. Purtroppo la mancanza di lavoro li costringeva ad emigrare, principalmente in Svizzera, ma anche in Francia e Germania.
‘Velina – I faseva sù al so’ fagutin e i partiva par Zurig, Lucerna, Basilea o anca in sul Vallees.
Giacum – Se stava via ‘na stagion senza fa nessuna scapadela foera via. A menu che gh’eva ’na quai situazion grama.
Questa era la cornice che, nel bene e nel male, permetteva alle famiglie di sbarcare il lunario, accantonando anche degli “spiccioli” per rafforzare la propria posizione. Per quel che riguardava le altre attività maschili o femminili, ci si poteva accontentare della scarsa offerta di lavoro nella zona attorno alla valle e/o nel capoluogo.
Nonostante ciò, il fabbisogno era superiore e le risorse ancora insufficienti per un accettabile benessere. Allora, per farla breve e tornare ai nostri personaggi, ci ritroviamo nella famosa situazione dell’attività contrabbandiera, nella quale si specchiava una maggior possibilità di guadagno. Facile ed illecito? Diremmo: eticamente esercitato? Il fatto è che il contrabbando è sempre esistito e nella fattispecie, ci si passava sopra anche con la coscienza. Conseguentemente lo Stato arginava il problema, creando la G.d.F. – Guardia di Finanza – insediata sui confini con caserme di compagnie militari.
Giacum – Dal Bisbin al Generus, lung ul senteé al cunfin tra l’Italia e la Svizzera, dalla “Val di Mugg” dent ul pansciun che al va sù ad Uriment, per pò vignì giò dalla Val Mara, de bricoj, “al sac”, na passavan un bel po’. La caserma de Prabell, duve fasevumm ul noster rifurniment sura Casasc, al “pian di Alp”, “sota ‘l Sass Gurdona” la distava dal paes circa tri – quatar chilometri.
Luis – Per i polentun della bassa (Milanes e Brianzòo) che, per prim in qui ann, sa permettevan una vacanza, una sgambada, sostenuda in quel sit, ghè vourevan pressapoc… doò ur. Del rest, per grazia del Signur, i gh’ eva l’aria bona, ca la guariss i polmon.
Mi accorgo che è facile perdere il filo in questo racconto, anzi direi anche perdere la strada, attratti da quei contorni invitanti che si incontrano cammin facendo.
Quella nebbiolina avvolgente stesa su fazzoletti di prato, le volute di fumo grigiastre di qualche baita d’alpeggio, segnale di presenza umana; il cinguettio incalzante di invisibili piumati nascosti tra le faggete.
Giacum – E sù in ciel, vulava senza pressa la pujana, a cuntrulaà da lì quel che capitava, intant che numm rivavum alla nostra caserma, quella del Pian di Alp.
Tutto questo andava scritto, doverosamente, per addentrarci sempre più in quell’insieme di “cose e di odori” che impregnavano l’aria.
Ci “abitavano” credo, dai quattro ai sei ragazzi, giovani, paracadutati in un luogo a loro imposto, sempre per quella maledetta carenza di lavoro, che al sud era molto pesante.
Così, tra quattro mura, si viveva in comunità con scambi di parlate e dialetti intrecciati; pugliesi, campani, siculi, calabresi. Si cucinava a turno, si lavava e si cuciva. Si passava qualche ora libera ascoltando la radio o scrivendo a casa. C’era poi la faticaccia del lavoro, basato sulla perlustrazione e sui controlli delle segnalazioni. Di giorno o di notte, bel tempo o cattivo tempo. Era guadagnarsi il pane. E non solo: ma anche il latte, la carne, le verdure e tutte ciò che serviva per la loro autonomia.
E presso quale bottega, se non quella della ‘Velina, fare i rifornimenti?
‘Velina – Ma come se faseva a fàa rivàa la roba a quei fieou? I “burlandi” – i finanzier – stavan rintanàa per dì e dì in quella càa là, impegnàa in una sfida tra guardi e spallun?
Ecco irrompere la figura del nostro Lùis, il portapane, l’uomo cavallo, l’uomo che sostituiva la jeep, l’uomo del pane quotidiano, l’uomo che giornalmente raggiungeva la caserma.
Giacum – Cun scià ‘l zaino in spala, ul “Lùis da la Pruvidenza”, come spuntava l’alba, al rivava adasi, adasi. E numm lì a speciall e a festeggiall.
In quell’incontro, forse sparivano tutti gli antagonismi, le differenze di posizione tra legalità e bisogni. Il Lùis, ora slacciava il pesante fardello, ne uscivano scatolette di carne e tonno, sacchetti di pasta e riso. E dentifricio, lucido da scarpe, lamette, birrette e quant’altro. In coro, in tutti i dialetti, echeggiava un “grazie” Lùis. Che alla fine, porgeva l’elemento più atteso che stava racchiuso in qualche busta sgualcita, ma tanto desiderata, notizie da casa: papà, mamma, fratelli che inviavano gli ultimi commenti. Su qualche viso, però non compariva il compiacimento, bensì si leggeva la nota dolente per qualcosa che non andava …
Asciugandosi alla belle meglio il sudore ormai rappreso:
Luis – Pa ‘n còò l’e naia… su, tiree ‘nzema i tuchit da idei ca v’e restaa e intant ca ’mbevi giò un grapin, ca ma tira su, ma prepari a nan. Parché ‘pena rivi a cà, voo a fà fee. Vurariss mia che ma catass al brutt temp.
I giovani ricomponevano l`ordine delle cose, grati per il piacevole intervallo e scherzosamente rispondevano: “agli ordini signor comandante!”. Una piccola risata concludeva la spedizione ed ognuno riprendeva la sua occupazione. Nel ripartire sulla via del ritorno, Lùis si cacciava in bocca l’affezionata “alfa” (ma dov’erano le bionde’?) e col suo passo felpato scendeva al paese. Chissà, forse in cuor suo si sentiva una “staffetta zufolata”, che si allungava fin dentro la macchia, ove gli faceva “verso” il cuculo confortandolo nel cammino.

Il Luis, entrando nel localino della ‘Velina, tappa quotidiana insostituibile e di grande supporto morale, mostrava quella sera una seriosità inconsueta. Molti occhi si rivolsero ai suoi, per indagare con discrezione quale potesse essere il motivo di quello stato.
Luis – Ciau a tucc. L’e mia la sira bona, stasira; la mia pinin al g’ha la fevra forta e sem mia da che part la vee. Al duttur, la mia pudù vedela, parchè le fòò in vall a fa cumpraà ‘na dona.
La ‘Velina si avvicina e cerca di rincuorarlo con spontaneità
‘Velina – Sta tranquill, vee. Se la too dona la g`ha bisogn, dic da famal savee. Mò, dimm su: veet in su subit?
Luis – Par forza … ma toca mì; ma g’u la pell dùra ma adess, vori buttà via la gramigna e tirà innanz. Scià…’Velina, bevemigam giò un biccer, quel solit, ta racumandi. La pò vess la mia medesina par fa giràà ben al mutur.
ll ciocco, scoppiettante nel camino, mandava scintille che salivano per la cappa; quel calore sembrava assopire anche i pensieri, oltre ai movimenti, degli ospiti serali.
Giacum – Scopa da sett; dai Pepp che stavolta ga la fem trà, a chi dùù lì.
Erano quattro i giocatori, posizionati in un angolino, che a tratti alzavano la voce, incapaci di trattenere quella ritualità vetusta di giocatori incalliti. Tutto era in buona fede, alla fine, si finiva in gloria. Luis, che osservava la scena, sorseggiando il suo vino, intervenne dicendo:
Luis – O gent, sa mal permetuff, va uffrisi da beev, in mezz ai dispiasee sa pò truvà quaicoss da bon. Al mè ziu, da dent a San Gall, al ma mandai a di, che pa’ Nataal al vee fòra cun scia un poò da franch svizar, c’al vòò famm un prestit, par fà ca poda slargà la stala. E alura, grazie ziu, an bevum giò un fiaa insema ai noss’amiss…salùùt.
Veramente una bella azione, quella del Lùis, che ora sembrava essersi tolto un poco di quel fardello visto in precedenza. Anzi cogliendo scherzosamente un altro inghippo dei giocatori, aizzò:
Luis – Varda … Varda … Giacum! Ch’el Toni li ta frega la napula, staach attent.
La ‘Velina, che per pochi secondi, si era seduta e stava crollando dal sonno, fu svegliata dal potente starnuto uscito dalla gola del Luis. Spruzzi a parte, era quasi “saltata” via.
‘Velina – Che cavul d’un fregiùù ta g’hee, che stremizi… un’oltra volta, al mè caar Lùis sonum al campanell.
Scoppiarono in una risata con adeguato commento.
Luis – Al mè starnùù l’é bon segn, ‘Velina. L’è mei d’un oroscopo.
Dopo questo intermezzo sonoro, anche i ritardatari, al volgere delle ore, si  apprestavano a rincasare. Per la povera ‘Velina, sarebbe andata ancora per le lunghe.
Riassettare, lavare, preparare l’approssimativo rendiconto. Aveva incominciato a piovere. Il Lùis per il suo ruolo, era ancora agli ultimi preparativi. Però il suo fieno era in cascina, al sicuro. Ora toccava a lui: ricomporsi, controllare la roba preparata dalla ‘Velina, isolare dalla pioggia lo zaino, infine chiederle:
Luis – ‘Velina, mett dai tùtt …’et metùù dent la spuleta negra pal brigadier .. e i culzett e i fazulitt…’Set brava. Bon. A l’ura an voo: duman, ta porti i furmagiit da cavra, quii ca fa la Maria d’Erbonne. Ciau, ‘Velina …. e grazia da tutch. E anca ti van in lecc, ca ta set ischtraca.
Si era assestato ben bene la pesante zavorra, calcandosi il passamontagna fino alle orecchie, così imbastito, col suo fedele tabarro, uscì. La notte accompagnava i suoi passi sulla sconnessa mulattiera; per lui non era un problema. Con la sua particolare andatura, sapeva evitare tutti gli ostacoli.
Del resto, era una vita che faceva il pendolare; figurarsi … quella sera era una sera somigliante alle precedenti. Anzi, da come era andata la giornata, si sentiva addosso quel po’ di euforia pregnante, che del resto non aveva nascosto là, dalla ‘Velina.
Forse era anche il nero notturno che sembrava sciogliersi negli invisibili, piccoli rigagnoli che la pioggia andava formando sul sentiero.
E la ‘Velina? Dove abbiamo lasciato quella donna nonché mamma, che incarnava la pazienza, la conoscenza, la saggezza, che i figli di questi monti irradiano, orgogliosi delle proprie capacità. Aveva controllato ancora una volta che gli ultimi ritardatari rincasassero e prima di tirare il cigolante chiavistello che dava sicurezza, tese l’orecchio, cercando anche lei la lieve armonia della pioggerella.
‘Velina – Tutt a post! Anca in cò hu faa ul me duver.
Si disse: e mentre il rintocco del campanile batteva l’una, tirò finalmente un bel sospiro.

EPIDEMIE: MONTE OLIMPINO

Posso comprendere che siate stanchi di sentir parlare di tale argomento, ma vi invito a leggere con attenzione; dopo averlo fatto, considerate le innumerevoli analogie, sono arrivato ad una conclusione: purtroppo, nulla di nuovo sotto il sole!, ma, insieme, anche una nutrita dose di pensieri positivi…visto che anche i nostri vecchi sono riusciti ad uscirne,  ed in tempi in cui le condizioni igieniche erano quello che erano e la medicina…pure.

(…dal libro di Primo Porta  Il Comune di Monte Olimpino 1818-1884 dell’Associazione Artistico Culturale Felice Spindler, edito da Tipografia Editrice Cesare Nani nel novembre 1986.)

Durante il periodo che va dal 1850 al 1884 anche a Monte Olimpino si ebbero epidemie di colera, vaiolo e difterite. Ciò fu provocato in parte dal movimento di soldati, oltre che da un certo afflusso di immigrati.
Si dovette anche mettere in funzione un lazzaretto per isolare e curare gli ammalati infettivi.
L’imperiale regio delegato provinciale, con lettera del 24 luglio 1853 segnalava un caso sospetto di “cholera” verificatosi a Cardina e raccomandava che venissero prese le opportune misure sanitarie per evitare che il male si diffondesse. L’ammalato, un certo Tajana, era un militare in permesso.
Ma l’epidemia si aggravò, tanto che il delegato provinciale, con lettera 22 settembre 1855, contestava al commissario del 1° distretto i dati statistici riguardanti il numero dei colerosi, assommanti a 15, di cui uno solo deceduto. Il delegato provinciale, da notizie assunte, affermava che i morti di epidemia erano ben ventiquattro (in tutto il Distretto).
Gli infermi venivano curati in casa e il Comune mise a disposizione dell’agente comunale un apposito fondo per le cure, che consistevano in “suffumiggi” La fattura presentata dalla “nota farmacia Crespi-Reghizzi di Borgo Vico” ammontava alla bella cifra (per quei tempi) di Lire 1.629,24.
Contemporaneamente compariva un’altra epidemia: il vaiolo. Nell’ottobre del 1853 veniva colpito dal morbo un militare del Reggimento Cacciatori, poi, nell’aprile del 1855, venivano segnalati in via lnterlegno un caso dì un ammalato non trasportatile ed un altro in frazione Paluda.
Il Comune dava disposizione al Medico condotto affinché procedesse alla rivaccinazione, ritenuta la cura più efficace per preservare la diffusione del contagio.
Probabilmente l’epidemia era stata portata dal movimento dei militari, tanto è vero che nel 1859 si verificavano altri casi, per cui si provvedeva alla disinfezione con “suffumiggi” delle stanze delle guardie addette al servizio della forza pubblica.
Una ripresa si ebbe poco più di una decina d’anni dopo, per questo l’amministrazione dell’Ospedale di S. Anna diramava ai Sindaci della Provincia una circolare datata 8 febbraio 1872, con la quale si faceva rilevare che: “Lo sviluppo che il vaiuolo va pigliando in questa provincia avendo tolto alla malattia l’ordinaria sua importanza, tanto che taluni municipi hanno dovuto provvedere all’impianto di apposito lazzaretto, consiglia l’amministrazione dello Spedale di S. Anna in Como a sospendere per ora l’accettazione dei vaiuolosi nello stabilimento; sia per rispondere in questo modo alle buone discipline igieniche, sia per evitare il pregiudizio che potrebbe recare ai ricoverati affetti da malattie non contagiose il loro accomunarsi (la separazione completa essendo sempre, se non impossibile, difficile) con malati per vaiuolo. Di tale provvedimento il sottoscritto si affretta a dare parte alla S. V. Ill.ma perché fino a disposizione contraria voglia essere cortese provvedere che i vaiuolosi non siano inviati all’ospedale, evitando cosi all’amministrazione il dolore di doverli respingere con materiale pregiudizio alla già travagliata loro salute. Il R. Commissario straordinario: Fabbri”
Tale disposizione aggravava certamente i già difficili problemi sanitari dei Comuni. Anche a Monte Olimpino si riscontravano nel 1872 numerosi casi di vaiolo, specialmente nelle frazioni di Bignanico e Vignascia. Purtroppo contemporaneamente, o quasi, alle sopra descritte epidemie, ne spuntarono altre e precisamente la difterite, che provocò parecchi decessi, e la pellagra. Il 23 novembre 1878 con ordinanza del Comune si chiusero le scuole “sino a nuovo ordine” in quanto la difterite infieriva seriamente. Basti dire che solo alla Ca’ Matta, sulla strada che si parte dal Ponte Molinello ed ascende a Cardano, si ebbero sette vittime. Il Sindaco diede ordine, sin dal novembre 1878, che i morti a causa di tale male venissero portati al cimitero nottetempo e senza accompagnamento. Tale provvedimento è da ritenersi preso per timore di maggiore diffusione dell’epidemia, ma anche per evitare che nella popolazione subentrasse panico assistendo a tanti funerali quasi contemporanei.
Nei 1879 si aggiungevano sei casi di pellagra, forma morbosa della pelle che provoca deperimento generale dell’organismo. Era diffusa specialmente fra i contadini.
Il medico condotto comunicava alla Prefettura che si trattava di un male importato ed il cui diffondersi era da imputarsi alla poca pulizia delle abitazioni, all’ammasso del letame nelle corti, all’uso del così detto pane di miglio (pan de mei) e del latte inacidito (quagiada).
Nel 1884 sorgevano nuovamente preoccupazioni per l’apparire di alcuni casi di “cholera”, morbo che si era sviluppate in Francia, specialmente a Tolone. Il male si diffuse anche in Provincia di Bergamo. Il Prefetto Guala decretò la sospensione delle fiere, sagre, processioni e pellegrinaggi in tutta la Provincia di Como e, nel circondario di Lecco, anche dei mercati periodici.
La commissione sanitaria comunale di Monte Olimpino, riunitasi il 30 giugno 1884, presente il sindaco ing. Luigi Bianchi, il dott. Lorenzo Cazzaniga e i membri Franzi Giovanni e Franzoni Pietro, nonché il segretario Enrico Corti, prendeva provvedimenti e misure precauzionali contro il pericolo di invasione e diffusione del “cholera morbus”. Le misure che si ritiene opportuno riportare per dare un’idea delle cure preventive allora in atto, si compendiavano come segue:
1) praticare una visita generale alle abitazioni tutte del Comune per una ricognizione della pulizia delle abitazioni e delle persone;
2) richiamare i comunisti (abitanti nel comune) alla piena osservanza delle disposizioni del regolamento di pubblica igiene;
3) destinare, nel caso si verificasse qualche caso di cholera, il locale ampio o meglio la casa ove trovasi la scuola mista di S. Bartolomeo delle Vigne quale luogo di contumacia;
4) accogliere e appoggiare la protesta fatta dalli abitanti di S. Abbondio, sia dipendenti dalla giurisdizione di Como che di Monte Olimpino, contro la determinazione presa da quel Municipio di destinare a lazzaretto provvisorio la piccolissirna, disadattata ed umida casa composta di sei locali, di proprietà del signor Pietro Coduri a S. Abbondio, in prossimità immediata di altre case, e di accompagnare con analoga protesta il reclamo fatto dagli interessati, alla Prefettura.
Ma la Prefettura non accettava la protesta e confermava la validità della casa Coduri come lazzaretto.
Intanto il Prefetto dava ordine a tutte le dogane di confine di far praticare suffumiggi su tutte le persone e merci provenienti da qualsiasi sbocco del Gottardo. Nel caso si presentasse persona sanitariamente sospetta, d’accordo con il ricevitore della dogana, occorreva farla visitare dal medico e, ove si ritenesse opportuno, tenerla sotto “sequestro” con tutte le precauzioni del caso. Per essere in grado di applicare le norme prefettizie veniva costituito un lazzaretto in Quarcino nell’ampio fabbricato con annesso giardino e dipendenze, di proprietà dei Conti Reina. Ciò per poter trattenere in quarantena le persone provenienti dalla Svizzera e ritenute sospette. Nonostante che si trattasse di accudire malati infettivi o presunti tali, ben quattordici comunisti si offrirono per assumere servizio nel locale di quarantena.
A quanto pare il contagio andava diffondendosi, visti i provvedimenti presi dalle autorità sanitarie nel luglio 1884. Veniva infatti stabilito un.cordone sanitario, mettendo a guardia del lazzaretto di Quarcino dal 1° al 20 agosto, 50 fanti del 64° fanteria, dal 21 al 31 stesso mese numero 55 fanti del 43° fanteria, ai quali davano poi il cambio altri 85 fanti del medesimo corpo. Si dovette allestire in un ampio locale, di proprietà del conte Francesco Reina ed abitato dal sig. Francesco Guarisco, una cucina e provvedere oltre al vitto, anche ad alloggi per i militari.
La situazione sanitaria, divenuta allarmante a causa dell’epidemia di colera, provocò nell’agosto del 1884 alcuni contrasti fra il Sindaco di Monte Olimpinci ing. Luigi Bianchi e quello di Vergosa, sig. Giuseppe Vitali. Venne a conoscenza dell’ing. Bianchi che il Sindaco di Vergosa, con i Reali Carabinieri della Stazione di Carnerlata, ebbe ad esercitare atti di autorità nell’osteria in cima alla Costa di San Fermo, condotta da Butti Fiorenzo, osteria che dipendeva dalla giurisdizione amministrativa del Comune di Monte Olimpino, il cui Sindaco faceva rilevare al collega di Vergosa, che la Commissione Sanitaria aveva visitato tutte le case del territorio dando le disposizioni atte a prevenire qualsiasi inconveniente. Lamentandosi per l’arbitraria ingerenza in territorio non di competenza di Vergosa, il Sindaco chiudeva lo scritto dicendosi sicuro di non dover lamentare per l’avvenire simili atti, desiderando di mantenere i buoni rapporti da sempre in corso. Ribatteva vigorosamente il Sindaco di Vergosa, avvertendo che dati i critici momenti, si era solo limitato a raccomandare all’oste di ritornare il pane malcotto al fornaio, che non adoperasse per cuocere le vivande certi utensili di rame non ben stagnati, e non desse tanti cetrioli ai suoi avventori! Terminava invitando il collega a non prestare più facile orecchio alle dicerie messe in giro.

 

TOPONIMO: MONTE OLIMPINO

Prima di dare inizio alla cronistoria della vita autonoma di Monte Olimpino, si ritiene interessante accennare alle molte variazioni subite dal suo nome.

Adolfo Bächtold si domanda, nel brano inserito nel volume “Toponomastica Chiassese tra cronaca e storia”, Non si sa quando né chi sia stato il fantasioso che per primo assegnò al colle che divide Como da Chiasso, questo nome mitologico. Non certo uno di quei cinquecento nobilissimi greci che si dice furono portati a Como dai Romani per popolare la città in epoca alquanto remota. Il citato autore precisa che il colle negli atti ufficiali era Lompino, che sarebbe derivato da un nome personale: Lumpinus. A un nome personale accenna anche l’Olivieri nel “Dizionario di toponomastica lombarda”, che però pensa ad un diminutivo di Olimpus o Olimpio. Monte Lompino risulta già citato nelle Costituzioni del Clero comasco, promulgate nel 1296 dal Vescovo di Corno Leone Lambertenghi, dove si parla (è sempre il Bächtold che ne fa cenno) di un monastero delle suore benedettine appunto sito in Monte Lompino.

Nel Bächtold si trovano anche le pronunce dialettali del nome, di cui alcune ancora in uso: Rumpin e Rompin, da cui Monte Rompino e Mundrumpin, mentre l’Olivieri cita Montlompin o Monte Olimpini. Da una cartina allegata ad un Codice di Brera della “Description Larii Lacus” di Paolo Giovio il colle veniva indicato con il nome Mons Olimpinus che quindi divenne in italiano Monte Olimpino.

Il Bächtold cita una leggenda che vorrebbe Ercole divertirsi a scagliare dal colle di Monte Olimpino macigni nell’altrettanto “leggendario lago di Chiasso”, per cui le acque si aprirono un varco tra Quarcino e Vacallo per andare a scaricarsi nel Lario.

Dall’avviso della Congregazione municipale della Regia Città di Como del 27 dicembre 1817, con il quale si annunciava l’istituzione del Comune, il toponimo risulta definitivamente fissato in Monte Olimpino.

Anche altri autori ticinesi si sono interessati della deformazione del nome della località posta poco lontana da Chiasso.

Oscar Camponovo, nella sua pubblicazione “Sulle strade regine del Mendrisiotto” (Bellinzona, 1976, seconda edizione, pagina 481) dice: Il toponimo è da ricondurre alla voce Rump (acero campestre) e la deformazione grafica passa per le forme documentarie “Lompino”, “Lumpino”.

A sua volta Mario Frasa su “L’ Almanacco 1986. Cronache di vita ticinese”, BelIinzona 1985, nell’articolo: “La scrittura del nome. Deformazioni grafiche nella toponomastica” pagine 126-130. scrive: le annotazioni che seguono sono il risultatato di una rapida scorribanda attraverso le terre ticinesi alla ricerca dei casi più palesi di deformazione di toponomi, dalla collina di Rumpin alle porte di Como, località ingentilita in Monte Olimpino….


(…dal libro di Primo Porta Il Comune di Monte Olimpino 1818-1884 dell’Associazione Artistico Culturale Felice Spindler, edito da Tipografia Editrice Cesare Nani nel novembre 1986.)

LE ROSE D’APRILE

Queste rose baciate dal sole,
Nel silenzio dei vesperi d’or,
Non sentiron le dolci parole
Che il tuo cuore diceva al mio cuor.
Quelle rose non hanno piú vita
Come i sogni di mia gioventú.
É un ricordo ogni foglia appassita.
Quelle rose non parlano piú…

Ahh! la tua voce gentile
Piú non allieta il mio cuore.
Come le rose d’aprile,
Le gioie d’amore
Son morte per me.