Memorie

SCAPOLI E AMMOGLIATI…2022

In fondo ad un cassetto ho trovato questa stupenda vignetta, opera del mitico Marcello Piccardo, che illustra una formidabile contesa svoltasi al campo sportivo della Lario nel 1953 e che mi ha spinto a fare qualche riflessione…

Se Paolo Vilaggio fosse nato 20 anni dopo, e avesse inventato Fantozzi nel 2000, avrebbe immancabilmente giocato sullo stereotipo della gara a chi c’ha lo smarphone più bello e, dopo aver fatto un miliardo di rate per prendere il mega-phone per far colpo sulla Silvani, gli si sarebbero intrecciati i diti nell’usare le applicazioni.
La domanda sorge spontanea: di quale applicazione sarebbe stato vittima? Direi che con un’alta probabilità sarebbe potuta essere Fubles.
Quante persone conoscete che si ritengono “sportivi” perchè giocano a calcetto il giovedì e guardano la partita la domenica pomeriggio?
Nella più rigida tradizione fantozziana il problema è che, non essendo dei veri e propri sportivi finiscono puntualmente per perdere menischi, stirarsi polpacci, prendersi i colpi della strega e le più svariate e creative variazioni sul tema. Quindi le squadre con folti ranghi che si formano alla fine dell’estate, ora di febbraio hanno delle defezioni che eccedono il 60%.
A sto punto sorge un grosso problema: bisogna trovare abbastanza persone con cui fare una squadra e trovare pure degli avversi sufficentemente numerosi. Il digital ci aiuta… ci pensa Fubles.
E’ un’applicazione che permette di trovare con criteri social e local tutti gli appassionati dello stesso sport che, in una zona e in un certo periodo, vogliano organizzare una partita scapoli-ammogliati o un torneone interaziendale tra la Pusterla Cementi S.p.a., la Trombetta s.n.c. e la Giordano Consegne s.c.r.a.l.
Immaginatevi il geometra Filini che sta godendo come un matto mentre spippola su Fubles, anche perchè con l’iPhone c’è il magnifier che aiuta pure gli astigmatici più esasperati e finalmente vede i punteggi delle squadre!!!

IL POGGIO CARDINA e “GLI ATTACCHI”

Con Brunate e col Baradello è uno dei colli più famigliari che attorniano la nostra Como, anzi, ancorché poco frequentato, diremo ch’è uno dei più sottomano, dei più vicini a noi, quello verso cui par incamminata più volentieri la marcia delle nostre case, nel rapido espandersi della città. Tuttavia se è molto signorilmente popolato alla base, nella cima è ancora abbastanza puro e vergine e, grazie a Dio, quasi ignorato dalle turbe domenicali… La stradetta che da Monteolimpino s’arrampica su su fino al paese di Cardina ebbi occasione di percorrerla sovente in altri tempi, dopo il 1910, anno della morte di Carlo Dossi, scrittore e ministro plenipotenziario. Da allora più volte io mi recai a far visita alla famiglia dello scrittore, nella sua bella villa del Dosso, frequentata allora dal genio tumultuoso e demoniaco di Giampietro Lucini.

Per un buon tratto, dopo aver toccato lo storico Castello di Carnasino, la stradetta sale a ripide svolte lungo il versante meridionale del poggio, poi pianeggia un poco scorrendo in mezzo a prati e grani verso il paese, quasi per dar agio al viandante di godersi la vista di Como che da quell’altura si scopre in tutta la sua figura frontale, dominata dell’avventuroso scenario dei colli che le si dispiegano alle spalle. Dopo la portineria di Casa Dossi la strada passa davanti a Villa Splinder, dove un’epigrafe infissa nel muro di cinta ci dice che E. Splinder, Sottotenente del 156° Regg. Fanteria è morto per la patria italiana il 18 agosto 1915, nelle trincee del Carso. E infine vi depone all’ingresso della piccola frazione di Cardina. Siamo, non si scherza, a 415 metri sul livello del mare.

Villa Spindler

Le case son poche ma il paese e i suoi contorni hanno già quasi un carattere alpestre. In giro si vedono spuntar su, quasi a curiosare, le cime dei monti più lontani, vestiti d’azzurro pallido. Siamo sul poggio, siamo nella sua verde cerchia di frescura e di verde, di grani e di boschi, di silenzi e di nuvole…

Villa Sassi, rosea tra il verde, domina da un lato della piazzetta la frazione ch’è composta di poche case coloniche e di una straducola che vi gira per mezzo. Sull’architrave del portone di una di esse è infissa una curiosa targa di marmo sulla quale sta scritto: Bene Incaminata Sij, 1546, e, al di sopra, c’è un piccolo stemma raffigurante una casetta con tre finestre. Ma non sembra molto antica ed ha un bel cortile nel quale superbamente verdeggia un fico, con bell’effetto, contro una vecchia muraglia grigia.

Chiesetta Assunta

Più in là, in un altro cortile d’una di queste case coloniche, abbiamo fatto la conoscenza con due magnifici gatti, poi, sotto una vasta tettoia, buttati là alla rinfusa, con basti e gioghi appesi alle polverose travature del sottotetto e con un paio di carrettelle giubilate, di quelle che usavano un tempo quando da Cardina a Como si andava ancora col cavallo, a portar la verdura, ma che ora più nessuno le vorrebbe neanche per ferro rotto.

Vecchie carrettelle e calessi di campagna voi mi troverete sempre disposto a commuovermi sulla vostra sorte infelice, specie quando ve ne state là con le vostre stanghe all’aria, ormai buoni a niente, in un canto di questi cortilacci lombardi. E mi torna a mente il tempo in cui, regine dei lunghi cammini, correvate allegre le strade non ancora asfaltate di Lombardia, al trotto di qualche baio dalla coda prolissa o di una grigia chinea che perdeva volontieri il suo pelo nella corsa, e mandavate un curioso odore che mi feriva piacevolmente le nari: un odore di cuoio ammollato e di sudor cavallino; l’odore dei miei primi entusiasmi per la vita all’aria aperta, l’odore dei nostri viaggi d’allora, il profumo delle prime avventure, delle libere scorrerie… Quantunque più tardi, permettetemi la digressione, un tal profumo venisse sostituito col profumo ben più terribile e dolce delle prime gomme pneumatiche e della para che tramandavano le biciclette nuove nelle botteghe dei ciclisti: e non si potevano comperare perché non s’aveva soldi e ci si accontentava di andarle, così, ad annusare. Era allora il tempo, al principio del secolo, in cui, come scrive un romanziere francese, la bottiglia di seltz cominciava ad allietare col suo delizioso getto tutto il mondo occidentale. Io dirò che il profumo della bicicletta attraversò tutta la mia giovinezza come Massine attraversa la scena, quale palla di fuoco, nell’Oiseau de Feu di Strawinsky… Ma poi è venuto l’odor della benzina e della nitrocellulosa, ed ogni felicità fu perduta. Questi poveri attacchi non si osa buttarli al fuoco e d’altra parte chi mai vuol acquistarli? È certo che la loro sorte è segnata. Sorpresi dall’avvento dell’automobile nel buono della loro carriera, han dovuto eclissarsi di colpo. È triste dover andarsene così nel buono della vita, colpiti a tradimento da una coltellata nella schiena! Ricordo una pagina di Selma Lagerlóf in cui è descritta un’adunata di vecchie poderose carrozze e calessine nel cortile di una fattoria nella vecchia Svezia. È una pagina bellissima. Ella ha dato un’anima commovente a quelle antiche forme della vita campagnola. Chi ha vissuto nella prima decade del secolo sa quanto fosse gustoso volare rasoterra al trotto rapido di un purosangue e reggergli le redini sulla groppa sudata; e farsi ammirare dalla gente del paese, passando, frusta in mano, redini tese, fiore all’occhiello, schiocco sulle labbra e caldano sulle ventiquattro!

da “Passeggiate Lariane” di Carlo Linati – 1939 –

FUSIONE DELLE CAMPANE di M.O.



I nost campann

Tiren bas i nost campann
gent che mund, che viv de can.
Se regordet Giuvanin
quant em faa sù el campanin?
Em sentii sti bei campan
a distesa din dun dan.
Ades mi han tiraa bas
senza fa tantu frecas.
A la festa del paes
sunaran minga distes;
faran bumb per i canun
mazaran cativ e bun,
sunaran semper de mort
i campan de Mundrunpin.
A l’è trista Giuvanin
i campan che bruta sort!

Savino (da L’OLIMPO dell’ ottobre 1945)

 

Le nuove campane (era parroco don Giovan Battista Catelli)

A CAVALLO DEL CONFINE – racconti per l’estate -2

LA STRANA STORIA DELLA MARCHESA VITELLESCHI (Un’escursione sul Generoso)
di Romano Venziani

«Chi? La Mata?!» Mi aveva risposto così, Nicla Belloni, quando le avevo chiesto se conosceva la marchesa Carla Nobili Vitelleschi.
Era una di quelle giornate in cui la nebbia, gonfiata dall’umidità dei pascoli, dalla Valle di Muggio si era arrampicata su lungo il pendio del Monte Generoso, abbracciandone la vetta, attorno alla quale si attorcigliava in volute vaporose. Il sentiero, dopo pochi metri, si dissolveva in quel biancore per poi scomparire del tutto, inghiottito dal nulla. All’improvviso, la giacca rossa di una donna minuta era uscita dalla bruma e mi si era piantata lì davanti, sorridente e sorpresa. Io, invece, non mi ero per niente meravigliato di trovarla lassù in quella mattinata di fine inverno. Il Generoso era la sua montagna, con qualsiasi tempo, in ogni stagione.
Avevo conosciuto Nicla qualche anno prima. Stavo realizzando un documentario sull’alpinismo al femminile e lei mi aveva accompagnato sulla cima del Poncione d’Arzo, a due passi da casa sua, per raccontarmi di quando, ancora giovane, prendeva la Lambretta e se ne andava ad arrampicare sui Denti della Vecchia o sui torrioni calcarei del Generoso. Lei e l’amica Santina Pedrini, tra le poche donne a praticare uno sport allora prettamente maschile, avevano iniziato su quelle pareti, prima di addentare le cime più alte delle Alpi.
«La Mata non l’ho mai incontrata- aveva concluso Nicla – ma conosco chi potrebbe raccontarti qualcosa».
Il mio interesse per la storia della Marchesa Vitelleschi risale al 2005, quando il Patriziato di Rovio aveva deciso di far qualcosa per salvare ciò che restava di una piccola e curiosa costruzione abbarbicata alle rocce, in cima al canalone del Baraghetto. In paese la chiamavano la Ca’ da la Mata, ma, della casa, non rimaneva che un rudere, quattro mura in cemento ben visibili dalla vetta del Generoso, guardando verso nord.
Ora che la nebbia si era dissolta, da lì lo vedevo distintamente, il diroccato, appollaiato in quel posto incredibile, come sospeso sulla parete ancora chiazzata di neve che cade a precipizio sul lago di Lugano, poco oltre la cresta su cui scorre il confine tra la Svizzera e l’Italia.
«Adesso ti mostro i documenti» mi aveva detto, qualche giorno prima Rinaldo Bagutti, aprendo la porta dell’archivio patriziale di Rovio, di cui lui, appassionato ricercatore di storia locale, era stato a suo tempo presidente. Da un faldone polveroso aveva estratto una brancata di vecchie carte, allargandole sul tavolo. Una di quelle carte era un contratto di locazione, che portava la data del 15 aprile 1929. Redatto con l’accurata grafia di quei tempi lontani, il documento rivelava che «il Patriziato di Rovio, proprietario della Cima così detta al Baraghetto, affitta alla N.D. Signora Marchesa Carla Nobili Vitelleschi di Roma… la parte inferiore culminante della Cima… per la costruzione di una casetta che la locataria s’impegna a costruire a sue spese…La locazione avrà la durata di anni 25 a partire dal primo Aprile 1929 al 31 Marzo 1954, e per il prezzo stabilito della somma di franchi 50.- pagabili ogni anno…» (1).
Seguivano due pagine fitte di condizioni e accordi, come quello che rilasciava alla Marchesa il permesso «di estrarre le pietre sul Baraghetto occorrenti per la costruzione della casetta», così come quello di installare «un parafulmini per proteggere la casa dal pericolo stesso».
Che la vicenda fosse perlomeno singolare l’avevano pensato in molti ed era anche l’opinione dell’avvocato Brenno Bertoni (2), a cui il Patriziato aveva chiesto consiglio prima di firmare il contratto. «Fare una locazione di 50 anni (3) mi sembra criticabile per un’amministrazione patriziale» aveva risposto Bertoni, il cui cruccio era però essenzialmente pecuniario. «Chi lo sa – si domandava, infatti, l’avvocato – cosa varranno 50 franchi nel 1960?».
Allora, tutti si chiedevano chi fosse la fantomatica Marchesa e per quale oscura ragione si fosse messa in testa di costruire una casa su quelle rocce martoriate dai fulmini, ma i cinquanta franchi annui erano una bella cifra in quei tempi di crisi e la transazione andò in porto, bollata come «roba da matti». E la casetta, edificata nei mesi seguenti, finì per essere chiamata «la Ca’ da la Mata».
Carla Nobili Vitelleschi era una nobildonna romana, di origini olandesi, che aveva sposato il marchese Giuseppe Nobili Vitelleschi, discendente da un antico casato del Lazio, dove la famiglia possedeva un castello nel borgo di Labro, in provincia di Rieti. Di lei si sapeva poco o nulla e la gente ne ricamava la figura e la vita con racconti immaginari e ipotesi fantasiose. La sua storia era piuttosto insolita e m’incuriosiva, a maggior ragione dopo aver visto i resti della casetta sul Baraghetto.
Il sentiero taglia il pendio sotto la vetta del Generoso, in territorio italiano, e segue l’invisibile linea di confine, indicata a intervalli regolari da cippi di granito squadrato. All’altezza di quello segnato con la cifra «23D», affacciandosi alla cresta e guardando giù, ecco «la Ca’ da la Mata», una decina di metri sotto il filo della montagna, piantata lì come un anacronistico bunker sospeso sul luccichio del lago. I muri oggi sono riparati da un tetto a volta, portato su con l’elicottero qualche anno fa (4), e si può scendere fino alla casa (a dire il vero non ne vale molto la pena) lungo un ripido canalino tra le rocce, a cui è fissata una fune di sicurezza. La prima volta che l’avevo vista, priva ancora della copertura, l’accesso era colmo di neve gelata e scendere quei pochi metri era piuttosto pericoloso, così mi ero limitato a osservarla dall’alto, chiedendomi che cosa avesse potuto spingere Carla Nobili Vitelleschi a scegliere quel luogo impervio per costruirvi una dimora.
Il suo scopo era effettivamente quello di «farsi un luogo di riposo e di tranquillità quale necessario per gli studi di filosofia religiosa a cui si dedicava», come si era giustificato all’epoca il suo legale, oppure esistevano altre misteriose ragioni? E quali?
«Tutto faceva parte di un preciso disegno strategico – mi aveva raccontato Graziano Papa (5) – Un disegno in cui gioca un ruolo significativo anche il trenino del Monte Generoso».
Inaugurata nel 1890, la ferrovia è già in fase di liquidazione un paio di anni dopo. Più tardi, con la copertura della Banca Svizzero-Americana di Lugano, e senza che il Governo cantonale si accorga di nulla, finisce nelle mani dello Stato italiano. L’Italia è particolarmente interessata al territorio ticinese, perché teme un’invasione della Svizzera da parte dell’Austria e della Germania (è il 1912 e due anni dopo scoppierà la Prima Guerra Mondiale). Un evento, questo, che minaccerebbe la sua frontiera settentrionale, perciò si premunisce allestendo i piani operativi, che contemplano l’occupazione preventiva del nostro paese. I capisaldi dell’operazione sono i valichi del Sempione, dello Spluga, del Maloia, il passo San Giacomo, la valle Monastero e il Ticino attraverso la frontiera di Chiasso (6). «L’acquisizione della ferrovia del Generoso e la costruzione nel 1929 del nido d’aquila della Marchesa Vitelleschi sul dirupo del Baraghetto, luogo di controllo del passaggio tra Maroggia e il ponte-diga di Melide – aveva concluso Papa – vanno inquadrate in quest’ottica strategica».
La «Casa della Matta» come avamposto spionistico e la sua bizzarra proprietaria agente segreto dello Stato italiano?
Le circostanze sembrerebbero suffragare l’ipotesi, ma nessun documento conosciuto la può confermare. Fatto sta che, proprio nel 1929, l’Italia fascista aggiorna i suoi piani e guarda al Ticino con occhi sempre più interessati.
Passa il tempo e mutano le alleanze e per finire, nel settembre del 1940, Mussolini (probabilmente per un accordo con Hitler) sospende i piani d’operazione concernenti la Svizzera e scrive a matita blu sul dossier della ferrovia del Generoso: «Non c’interessa più».
Nel 1940 il trenino tornerà in mano svizzera grazie all’iniziativa dei fratelli Casoni, costruttori edili ticinesi di Basilea, e l’anno seguente sarà acquistato dal lungimirante Gottlieb Duttweiler, fondatore della Migros.
Credevo di aver esaurito le informazioni, quando mi arriva una lettera di Nicla Belloni, che mi suggerisce di parlare con la sua amica Adriana. La incontro in un appartamento di Paradiso. «Era una bella donna – mi racconta – bionda, con splendidi occhi chiari, molto vivi. Negli anni Cinquanta-Sessanta abitava al piano di sotto. È così che l’ho conosciuta».
Mi mostra due libri, uno è il Bhagavadgītā, testo sacro dell’induismo, e l’altro un saggio sul buddismo. Entrambi sono fitti di annotazioni in francese. «Me li ha dati lei – continua Adriana – si occupava di filosofia e aveva anche molti altri volumi d’archeologia e sulle religioni orientali».
Probabilmente gli stessi che accompagnano le giornate e le notti solitarie che Carla Nobili Vitelleschi trascorre tra le rocce del Generoso. Ad Adriana racconta che una volta voleva rimanere lassù anche durante l’inverno, ma la stufetta a petrolio continuava a spegnersi e, per non morir di freddo, era scesa a piedi nella neve lungo i binari della ferrovia, arrivando sfinita a Capolago.
La Marchesa sale regolarmente nel rifugio del Baraghetto fino al 1943, poi se ne perdono le tracce, mentre l’affitto è pagato tramite un avvocato di Locarno, fino allo scadere del contratto nel 1954.
Ed è a quell’epoca che rispunta a Lugano. È ormai una signora anziana, riservata, con pochissimi amici, tra cui l’ex consigliere federale Enrico Celio. Indossa vestiti fuori moda, una lunga pelliccia consunta, legge molto e passeggia con la sua cagnetta. Poi, un giorno, dice di voler andare da amici a Losanna e scompare. Adriana viene a sapere che è all’ospedale, dove poco dopo muore. «Al funerale hanno suonato l’Alleluia di Haendel – conclude Adriana – e le sue ceneri vennero gettate nel Cassarate».
La Marchesa Carla Nobili Vitelleschi esce di scena così. Ritorna alla terra attraverso il fluire delle acque, per suo desiderio, come a voler riprodurre un antico rituale che si rifà a quelle religioni orientali, il cui studio, diceva lei, l’aveva portata sul Generoso.
E sul Generoso sono tornato anch’io, in un’incerta giornata di fine estate. Il cielo è infagottato in una cappa grigia e compatta, che si stempera negli strati più bassi per poi stendersi sulle vallate e la pianura con un leggero velo bianchiccio.
Sono salito con un trenino stracarico di turisti attratti dal «Fiore di pietra» dell’architetto Botta, che ora affollano il ristorante e la terrazza panoramica, ma che spariranno come d’incanto appena ci si allontana dalla cima. Volevo rivedere la «Ca’ da la Mata» e poi scendere verso Scudellate, in Valle di Muggio, da dove infine tornare con i mezzi pubblici a Capolago.
Passo a salutare Marisa e Adriano Clericetti, che sul Generoso vivono da cinque generazioni. Hanno le mucche e i maiali e gestiscono l’agriturismo Latte Fresco, dove ci si può rifocillare e comperare formaggio, formaggini e salumi.
Così, tra quattro chiacchiere, accenno alla Marchesa Vitelleschi e l’Adriano mi fa: «me la ricordo, la Mata, non dormiva al Baraghetto, stava lì di giorno, ma per la notte aveva una camera nell’albergo. Nessuno poteva entrarci, le mandavano su la posta in un cesto, con una corda, che lei recuperava dalla finestra».
Il sole ha fatto timidamente capolino e così mi avvio giù per il sentiero, una traccia appena percettibile nel verde degli ampi pascoli, che già esibiscono le prime pennellate di colori autunnali. Dallo zaino, a ogni passo, esce un cri-cri sommesso del sacchetto di plastica in cui ho avvolto con cura i formaggini di Marisa.
Davanti agli occhi, la valle di Muggio, laggiù, con i suoi villaggi come sospesi tra la strada e i boschi, che hanno ormai colonizzato i fianchi della montagna e incalzano, quasi a volerli fagocitare, i nuclei abitati (7). Più a sud, oltre l’ultima increspatura delle Prealpi, la pianura padana, che si distende, perdendosi in una densa caligine.
Sui prati spuntano i gendarmi, sentinelle immobili e silenziose, che scrutano l’orizzonte come a voler proteggere la montagna da misteriosi assalitori. Li hanno eretti gli alpigiani, pazientemente, con le pietre raccolte ripulendo i pascoli.
Dò un’occhiata all’alpe di Génor incollato al ripido pendio. Un tempo ospitava una decina di famiglie, oggi è rimasto solo Marco Cereghetti.
«Fin che la salute tiene rimango qui, perché amo questa terra, poi bisognerà rassegnarsi» mi aveva detto una ventina d’anni fa, quando lo avevo trovato lì, seduto all’ombra, con la schiena appoggiata ai sassi della cascina. Alcune capre sonnecchiano sui muretti, altre si rincorrono giocando. Segno che Marco resiste. Nonostante l’età, non si è ancora rassegnato ad abbandonare la montagna. Non lo vedo, ma riparto contento.
Il sentiero che va verso l’alpe di Nadig, fiancheggiato da un’incredibile recinzione di piode verticali, è come la lunga cicatrice di un’antica ferita che ha inciso di traverso il pendio. Gli alberi sono radi e alti, riuniti in piccole macchie di verde. Gli alpigiani li hanno piantati per proteggere le nevère dal caldo dell’estate.
Ogni volta che vedo questi ingegnosi «frigoriferi» ante-litteram, provo una profonda ammirazione per gli abili costruttori, che hanno saputo accordare le pietre in modo tale da creare manufatti di estrema precisione e armonia. Ho contato sei nevère, una più bella dell’altra, tra Génor e Nadig.
Mancano ancora poco meno di quattrocento metri di dislivello, prima di raggiungere Scudellate, che, visto da quassù, sembra ormai a portata di mano, o meglio… di piedi.

Note
1 – Carla Nobili Vitelleschi, tramite il suo avvocato Aldo Finocchi, aveva versato al Patriziato di Rovio un anticipo di 500 franchi, pari a dieci anni di affitto.
2 – Brenno Bertoni (Lottigna 1869-Lugano 1945) è stato giurista, giornalista e politico. Esponente di spicco della cultura e della politica ticinese e svizzera, tra i protagonisti della rivoluzione radicale del 1890, Bertoni sarà per molti anni deputato in Gran Consiglio, nel Consiglio Nazionale e in quello degli Stati. Era fratello di Mosè Bertoni (uomo di scienza, scrittore e anarchico bleniese, fondatore della colonia di Puerto Bertoni, in Paraguay).
3 – La durata auspicata in un primo momento dalla Marchesa era di 50 anni.
4 – La copertura è stata progettata dall’architetto Marco Conza, presidente del Patriziato di Rovio.
5 – Graziano Papa (classe 1919) è avvocato, notaio e uomo di cultura. Per molto tempo è stato la coscienza ecologica del Canton Ticino. Presidente di Pro Natura per parecchi anni, è un attento analista dei problemi pianificatori in merito ai quali è intervenuto con autorità, bloccando, in varie occasioni, progetti devastanti per l’ambiente e il paesaggio ticinese.
6 – I documenti sono contenuti in: Alberto Rovighi, Un secolo di relazioni militari tra Italia e Svizzera 1861-1961, Roma, Stato maggiore dell’Esercito, Ufficio storico, 1987.
7 – Il Museo etnografico della Valle di Muggio, a Cabbio, espone una serie di fotografie aeree, d’epoca e recenti, che mostrano l’espansione della superficie boschiva e la trasformazione del paesaggio negli ultimi settant’anni. (http://www.mevm.ch)