Il primo trenino elettrico

176 anni fa Thomas Davenport brevettò un motore elettrico. Prima di registrarlo, costruì un trenino giocattolo Quando finalmente ottenne il brevetto per il primo motore elettrico il 25 febbraio 1837, Thomas Davenport ne aveva già esplorato le possibili applicazioni.
Ben due anni prima, infatti, un anno dopo averlo inventato con l’aiuto di sua moglie e del suo amico Orange Smalley, l’aveva utilizzato per realizzare un piccolo trenino elettrico, in cui le rotaie funzionavano come conduttori di corrente. Gli era sembrato il modo migliore per dare l’annuncio della sua invenzione, e aveva avuto ragione: “L’occulto e misterioso principio del magnetismo è mostrato in tutta la sua magnificenza ed energia nel momento in cui Mr. Davenport azione la sua ruota”, scriveva il New York Times.
La ruota in questione era un rotore che si muoveva grazie a quattro elettromagneti alimentati da una pila di Volta, in questo modo Davenport riusciva a trasformare energia elettrica in meccanica.
Oltre al trenino usato per la prima dimostrazione, Thomas mise alla prova il suo motore elettrico costruendo anche un pianoforte elettrico, una piccola macchina da stampa, un elettrotelegrafo, dispositivi per tessere la seta, raccogliere il grano o azionare un tornio e perfino una piccola automobile, praticamente la prima auto elettrica.
Arrivare a questo punto per Davenport non era stato certo semplice. Innanzitutto non era un inventore e nemmeno un ingegnere.
Era nato a Williamstown, in Vermont, da una famiglia molto povera, quarto di undici figli. Aveva frequentato la scuola per appena tre anni, poi era stato a lungo apprendista fabbro prima di riuscire ad aprirsi una sua bottega nella vicina cittadina di Brandon. Nel 1831 era andato in visita alla Penfield Iron Works di Ironville per vedere in funzione il primo elettromagnete a uso commerciale, realizzato da Joseph Henry, impiegato in questo caso per sollevare il ferro e separare quello più puro da quello contenente troppi residui. Affascinato dalle potenzialità dell’elettromagnete e dalla visione di un mondo dove l’energia elettrica poteva essere impiegata per facilitare il lavoro dell’essere umano, decise di volere anche lui un esemplare di questa meraviglia.
Per ottenerlo però dovette vendere il cavallo del fratello. Quando lo ebbe tra le mani, la prima cosa che fece fu smontarlo e provare a costruirne uno anche lui. Ci riuscì nel 1834 con l’aiuto di un collega e concittadino, Orange Smalley, e della moglie che sacrificò allo scopo anche il proprio vestito da sposa: lo tagliò in striscioline da usare come isolante per cavi.
Anche ottenere il brevetto fu parecchio complicato per il fabbro del Vermont. Quando finalmente si decise a fare domanda, pensò di andare di persona all’ufficio brevetti di Washington D.C. Il viaggio si rivelò però più lungo e costoso del previsto e quando arrivò a destinazione aveva speso praticamente tutti i soldi necessari alla registrazione. Tornò quindi a casa per riguadagnare la cifra, e inviò per posta la sua domanda. Ma proprio allora l’ufficio brevetti andò a fuoco. Un nuovo tentativo ottenne un rifiuto come risposta: non era mai stato rilasciato un brevetto per un dispositivo elettrico, servivano lettere di presentazione che confermassero il valore dell’invenzione. Le ebbe da professori del Rensselaer Polytechnic Institute e della University of Pennsylvania e finalmente nel 1837 riuscì nel suo intento.
Passò i successivi 15 anni a migliorare, promuovere e cercare di vendere la sua invenzione e le sue applicazioni, ma senza successo.Thomas Davenport morì d’infarto nel 1851, tre giorni prima di compiere 49 anni. Secondo il figlio, gli si spezzò il cuore alla notizia che Samuel Morse era stato riconosciuto come inventore del telegrafo elettrico, quando lui aveva già costruito qualcosa di molto simile.
Anche se non apprezzata dai contemporanei l’invenzione di Davenport cambiò completamente la storia umana. Senza di lui probabilmente Thomas Edison avrebbe dovuto lavorare molto di più prima di ottenere gli straordinari risultati che tutti oggi conoscono.

Caterina Visco

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