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I cognomi dei VINTUN – 3

PIFFARETTI

Piffaro o piffero indicava lo strumento a fiato di piccole dimensioni della famiglia dell’oboe, ma pifferi erano anche detti i sonatori di strumenti a fiato all’epoca dei Comuni e delle Signorie. Il cognome è evidentemente un soprannome col diminutivo, dato a chi suonava e ai suoi discendenti: questi s’incontrano a Ronago nel Cinquecento, prima in località Campersico, proprio sul confine, e poi nelle altre località del Comune. Un Piffaretti di Ligornetto (Ti), scultore, lavorava a Torino nell’Ottocento; altre famiglie nel medesimo periodo si erano insediate al di qua e al di là del confine di Stato, da Chiasso a Como.

PUSTERLA

Dal latino “posterula”, piccola porta posteriore; nel Medioevo veniva chiamata pusterla o posterla la porticina di servizio aperta nella cerchia difensiva di un castello o di una città. E’ chiaro che molti di coloro che avevano in custodia o abitavano vicino ad una pusterla potevano trarne il soprannome, e questo già in età altomedievale. A Milano esisteva una famiglia con questo gentilizio che ricevette concessioni feudali da Ariberto d’Intimiano. Como ebbe nel Quattrocento tre vescovi discendenti da questo nobile ma non sempre fortunato ceppo. Un altro, pure nobile ma meno illustre, era radicato a Sondrio; a una famiglia del ramo comasco apparteneva un notaio attivo in città nel 1520. Nello stesso secolo compaiono a Solzago e a Camnago i parenti plebei; quelli di Stabio (Ti) nella prima metà del Seicento usavano migrare a Roma come “magistri”. Gli uni o gli altri si propagarono a Ponzate, Tavernerio, Monte Olimpino, ecc.

ROMANO’

Deriva evidentemente dal doppio toponimo di Romanò e Villa Romanò, in quel d’Inverigo, proprio al centro della Brianza, profondamente segnata nell’alto Medioevo dall’insediamento longobardo: non da «romano» ma da «villa arimanorum», come Romanore nel Mantovano (frazione di Borgoforte), cioè non da romano contrapposto a barbaro, ma da guerriero libero insediato tra i vinti. Ad ogni modo i discendenti plebei dei guerrieri longobardi si sono spostati nel Seicento, ma forse anche prima, in pieve di Fino, soprattutto a Bregnano, specialmente a Menegardo, che fino alle riforme di Maria Teresa era un «comunello» o «zona quasi franca».

RONCORONI

Legato per radice ai Ronchi, Ronchetti, Ronconi, questo gentilizio compare a metà del Cinquecento nella zona collinare a sud-ovest di Como, a Casarico di Civello e a Montano (quest’ultima località sembra sia stata il primo vivaio dei Roncoroni); si tratta evidentemente di un soprannome dato a chi aveva come principale interesse la cura della vigna terrazzata: cioè il “roncolare”. Tra il Cinquecento e il Settecento i vari rami familiari si sono sparsi nell’Olgiatese, nella pieve di Fino e nei dintorni di Como. A uno di questi ultimi si può riferire uno stemma d’età barocca che presenta un doppio tralcio di vite al naturale, con grappoli maturi, sorgente su di un monticello bruno e su campo giallo, sulla cima spicca un’aquila nera in campo d’oro.

RONCHETTI

Come per il precedente Roncoroni il termine topografico indica un piccolo colle dissodato e sistemato con vigne a terrazza, fatto tipico della nostra economia rurale, che dall’età comunale ha visto micro insediamenti con coltura intensiva e specializzata nelle zone solive. E’ quindi normale che il cognome compaia prima a Solzago e alla Ca’ Franca (tra Lipomo e Montorfano, con la totalità dei pochi focolari), poi, dal Settecento, anche nella convalle e nel capoluogo.

TETTAMANZI

Il gentilizio nella sua forma originaria è presente dal Cinquecento soprattutto a Lurate Caccivio, ma anche a Civello, Lucino, Vergosa, Grandate e Cassina Rizzardi. Si tratta di un soprannome scherzosamente o malignamente allusivo, “che munge i manzi”, ricavato sia da “tettavacch” (uccello detto vaccaro) sia da cognomi medievali quali Tettacapra e Tettalasina (presenti in area bolognese dal Duecento). Sin dal Seicento, a Castel S. Pietro (Ti) e a Olgiate, si ritrova comunque nei documenti l’alterazione, voluta per mimetizzare il significato non gradito del cognome, in Tettamanti. Questa ha avuto, com’è naturale, successo, tanto che oggi prevale numericamente in tutta l’area lombarda sulla forma originale.

VAGHI

Alla base di questo cognome, che si presenta nelle due varianti singolare e plurale, seconda dei luoghi, dei sottorami e degli umori dei primi ufficiali di stato civile di circa due secoli or sono, in tutto il territorio comasco, non è già l’aggettivo latine “vagus”, nel senso di errante o volubile, ma una locuzione mediolatina “ad opàcum”, da cui è derivata quell’antica lombarda di “al vagh”, che indica la casa o il terreno posti a bacío, a tramontana, senza sole. E’ chiaro che il soprannome poteva sorgere in più situazioni analoghe: di qui la presenza dei vari rami a Lipomo, Camnago di Como, Minoprio, Cermenate e Asnago nel Cinquecento, a Camnago di Uggiate nel Seicento e in Como centro e “corpi santi” (da Monte Olimpino a Camerlata) nel secolo seguente.

I cognomi dei VINTUN – 2

DOTTI

Si tratta di una forma troncata all’inizio, da Guidotto, diminutivo (non accrescitivo) a sua volta da Guido, nome proprio germanico analogo al latino Silvio. Il ceppo comasco compare nella zona di Cernobbio, in particolare a Piazza, già nel Cinquecento, specializzato nell’attivitá edilizia, da Battista a Marzio a Giovanni Paolo architetto e al figlio di questo ultimo, Carlo Francesco (Piazza 1669 + Bologna 1759), molto attivo tra chiese e palazzi della città felsinea. Altri rami si diffusero nella valle del Breggia, a Monte Olimpino e poi in città.

GUARISCO

Il gentilizio deriva sicuramente dal nome di tradizione longobarda latinizzato in Guarinus (da una radice che ha il senso di “proteggere, difendere”), combinato col suffisso -sco, analogo al più diffuso -asco, che designa l’appartenenza o la derivazione. Ne è venuta una forma sincopata, parallela all’altra, Varisco, di origine lombardoveneta. La parentela compare nel Seicento a Cavallasca e a Montano, nel Settecento anche a Monte Olimpino, e negli altri piccoli centri destinati a fondersi con la città, dove è attualmente uno dei cognomi più frequentemente ricorrenti. Lo stemma seicentesco presenta un leone argenteo rampante in campo azzurro.

MARTINELLI

Il gentilizio era ed è molto diffuso non solo in alta Valtellina e nel Comasco, ma anche in numerose altre aree dell’Italia centro-settentrionale. La sua origine è quasi trasparente e a sua volta spiega la grande diffusione: il nome Martino infatti ebbe grande fortuna in tutta l’Europa nel Medioevo per il prestigio del santo omonimo morto a Tours alla fine del IV secolo. Il primo luogo comasco in cui compaiono i Martinelli è Maccio, nel Cinquecento; segue Cavallasca, nel Seicento; da allora i loro rami hanno avuto una crescita esponenziale. Si conoscono due stemmi secenteschi del casato, più pittorici che araldici; il primo raffigura san Martino come vescovo benedicente con pianeta rossa, mitria dorata e pastorale, su campo azzurro e terreno al naturale; il secondo lo stesso santo come nobile su cavallo bianco, in veste rossa e con spada sguainata per tagliare in due un mantello nero di fronte a un piccolo mendicante ignudo.

MASCETTI

Nel periodo comunale (XII-XIII sec.) gli oriundi di Maccio venivano in genere designati solo col nome del paese, “de Matio”; questo capitava anche a persone e famiglie rimaste nel suo ambito. Nel periodo successivo, quando ormai ogni famiglia aveva il suo cognome, almeno come embrione, noto nel vicinato, il soprannome relativo al paese d’origine toccava quasi soltanto a chi se ne allontanava, ed era per lo più in forma dialettale e col diminutivo, “detto il Mascetto”. E’ chiaro allora che tutte le famiglie della vasta plaga uggiatese-olgiatese e poi nell’area comasca che hanno assunto questo cognome, nel corso di vari secoli, non hanno in comune la stirpe ma solo il villaggio d’origine. Si potrebbe forse azzardare l’ipotesi di una comune etimologia per il cognome Mascioni, diffuso nella non lontana Valcuvia.

MOLTENI

Questo gentilizio era presente a Lipomo e Terlizza già nella prima metà del Cinquecento, a Capiago nella seconda metà del secolo; nel Seicento compariva a Tavernerio e nei paesi limitrofi e dall’inizio del Settecento anche in città e a Monte Olimpino. La sua diffusione e la sua ramificazione straordinarie devono far pensare a più ceppi originari del villaggio di Molteno.

NESSI

Una famiglia “de Nexio”, chiaramente derivata dal borgo lariano, era già presente ad Albate nella seconda metà del Duecento (1261): si trattava di affittuari in grande stile, forse in grado di tenere alle proprie dipendenze vario personale salariato. Di una considerevole fortuna è indice il fatto che nel 1318 un complesso di case e rustici (una “corte”) fosse denominato “ad Nesium”. Nel Quattrocento i “de Nesio” risultano nella valle del fiume Aperto ma non ad Albate; tra la fine del Cinque e i primissimi del Seicento, anche a Monte Olimpino e in Borgo Vico, e poi in tutti i sobborghi di Como. Da un ramo nacque nel 1741 Giuseppe che fu valente medico, professore all’Università di Pavia e autore di numerosi trattati e dissertazioni di chirurgia e di ostetricia; un suo saggio critico sulla sepoltura nelle chiese è stato messo in rapporto, come fonte, col carme sui sepolcri del Foscolo.

ORTELLI

Dal medio latino «hortale», sinonimo di «hortus», viene il gentilizio «de hortali», già presente in pieve di Nesso, a Laglio, nel 1281, e a Pognana entro il Quattrocento; secondo l’uso lombardo la consonante sonora dopo la sillaba tonica veniva rafforzata, quindi Ortalli. Nella seconda metà del Cinquecento una propaggine della famiglia era insediata a Vergosa, mezzo secolo più tardi altre due stavano a Cavallasca e a Solzago. Una variante grafica di Ortalli deve ritenersi il cognome Ortelli, nato come finto diminutivo verso il Seicento, e diffuso a scapito del primo ormai in tutto il Comasco. Nacque nel 1861 in città Luigi Ortelli, sacerdote e fondatore dell’Oratorio di S. Filippo Neri in via Dante (di cui ora permangono solo il nome e qualche rudere…).

I cognomi dei VINTUN – 1

Sono andato a cercare notizie sui cognomi piu’ diffusi nel nostro territorio all’epoca del Comune Autonomo di Monte Olimpino (1818 – 1884). Questa e’ una prima parte (in ordine alfabetico).

BERNASCONI

Con un normale suffisso accrescitivo riporta il nome di una piccola frazione di Faloppio. Il toponimo Bernasca è antico e difficilmente spiegabile. I Bernasconi già si diramavano in pieve di Uggiate nel Quattrocento; a metà Seicento erano già presenti, oltre che in essa, a Civiglio, nel Mendriosiotto e nell’alto Varesotto. Da queste ultime due zone venne un bel numero di “magistri”, attivi anche a Roma; su tutti spicca il varesino Giuseppe Bernasconi, il “Bernascone” architetto. Nell’Ottocento invece la famiglia Bernasconi di Varese fu celebre per la fabbrica organaria. Attualmente il cognome è tra i più diffusi in alta Lombardia occidentale e nel Ticino. Lo stemma è dominato dall’aquila imperiale e presenta una banda bianca trasversale in campo rosso e due stelle a sei punte. E’ giusto ricordare anche due religiosi comaschi, il cav. don Baldassarre e il cav. don Giuseppe, ambedue patrioti ed appassionati di archeologia e di storia; il secondo, del ramo di Civiglio e proprietario del complesso di S. Donato, morì a 97 anni nel 1922.

BIANCHI

Si possono distinguere varie stirpi con questo cognome: una di Brienno, oltre di Caglio e di Velate, già presenti nel Quattrocento, analoghe alle numerose riscontrabili in borghi e città dell’antica Lombardia. In questo caso si può riferire come soprannome al colore dei capelli, all’incarnato oppure alla coloritura politica (Guelfi). Un secondo gruppo ebbe origine più umile tra il Seicento e l’Ottocento, quando il cognome veniva assegnato d’ufficio ai numerosi trovatelli o «figli dell’Ospedale di S. Anna», che quasi sempre trovavano una sistemazione presso famiglie contadine in vari paesi del Comasco, preferibilmente dove la manodopera giovanile era ben accettata (non dico remunerata). Si spiega così la presenza massiccia di questo cognome sul territorio. Dai rami più antichi della parentela esiste anche uno stemma: rosa rossa coronata in campo bianco e bande verticali alternate rosse e bianche. Il pittore Isidoro Bianchi di Campione apparteneva sicuramente al più antico gruppo; Pietro Bianchi, nato cinquant’anni dopo, fu invece “preso in casa” dall’ultimo dei pittori Crespi Bustini che lo allevò, istruì e affiliò: era «figlio dell’Ospedale».

BUTTI

Nella forma umanistica latinizzata è Buccius; viene dal nome antico lombardo della gemma o del bocciolo; compare intorno a Como nel Cinquecento e nel secolo seguente vari nuclei familiari risultano stanziali a Vergosa (San Fermo), a Montano e a Cavallasca; altri presenti in centro di Como nel Settecento. Nel secolo scorso a Viggiù fu attiva una famiglia di scultori che lavorò molto anche a Milano. Un ramo un po’ a sé mi sembra che sia quello da secoli fiorente (ancor oggi molto numeroso) a Porlezza e in val Cavargna.

CANTALUPPI

E’ un tipico soprannome, nato non dal popone romano giallo e dolce diffuso a partire dal Cinquecento, ma da un’attitudine attribuita a qualche membro della famiglia, con malignità, a ululare come il lupo o ad atteggiarsi a lupo. Nei secoli ormai lontani del basso Medioevo, dal Due al Quattrocento, il lupo aveva ancora un’immagine ambigua, nobile cioè e repellente insieme. Lo stemma parlante presenta un lupo, con le fauci aperte per ululare, che passa sopra un ponte a tre archi. Il luogo d’origine (prima del ‘400) è Ponzate; ma due secoli dopo la famiglia si era diramata a Camnago e a Civiglio; col primo sviluppo economico settecentesco dilagò nella convalle comasca. Forse è legata alle migrazioni della famiglia la piccola frazione Cantalupo di Olgiate Comasco.

CAVADINI

Da una piccola frazione di Urio, in zona rocciosa intensamente antropizzata, cioè segnata da grandi terrazzamenti di terra coltiva (di qui il toponimo), viene la parentela, presente da più di quattro secoli nel quarto nordoccidentale della pieve di Zezio ovvero di Como, in particolare a Monte Olimpino fin dal Seicento. Lo stemma presenta una casa rossa merlata in campo argenteo, sovrastata da un’aquila imperiale nera in campo d’oro. Da notare che alcuni rami si sono estesi a Occidente, anche oltre i confini nazionali.

CAVALLERI

Non dal cavaliere ma dall’umile e preziosissimo bombice del gelso, il “cavalèe”, trae origine questa parentela, già presente in Borgo Vico alla fine del Cinquecento e sviluppatasi in ambiente suburbano ed urbano fino al nostro secolo; vi appartenne il notaio Pietromartire fu Teodoro, che rogò atti tra il 1623 e il 1683. Lo stemma documentato, emblema parlante e fuorviante (ma era un costume diffusissimo) presenta un cavaliere armato, lancia in resta, su destriero bardato, con campo azzurro e terreno al naturale.

CORTI

In latino classico “cohors” significa anche cortile o recinto; in quello medievale “curtis” è un insediamento rurale, nell’ambito della struttura feudale, costituito da un fondo principale e da vari annessi. Ad aver assunto il cognome possono essere i comproprietari, i custodi o anche solo gli abitanti della “curtis”. Nel vasto ambito territofiale comacino già alla fine del Duecento compaiono due cognomi distinti a Como e a Gravedona, i futuri Corti e Curti: ma il primo dei due risale più probabilmente all’aggettivo “curtus”, cioè tarchiato, di statura ridotta. Lo stemma del ramo principale comasco dei Corti è suddiviso in tre fasce orizzontali: in quella superiore compare un’aquila coronata nera in campo d’oro; nella mediana un leone passante rosso in campo d’argento; nella inferiore, in campo rosso, v’è la figura stilizzata della “corte”, cioè un quadrilatero argenteo bordato con merli ghibellini, racchiudente un campo verde con quattro fiori dorati. Il primo personaggio comasco che figura con questo cognome è frate Alberto, preposto degli Umiliati a S. Maria di Rondineto nell’ultimo decennio del Duecento. Trecento anni più tardi un membro della famiglia sedeva nel consiglio dei Decurioni, riservato ai nobili della città; un altro Corti, Gabriele, col suo testamento del 1630 fondava in Duomo un Collegio di sei sacerdoti Mansionari. Il munifico gesto è ricordato da una lapide nella parrocchiale di Laglio, paese dove la famiglia tenne cospicue proprietà fondiarie fino a tutto il secolo scorso. Altre famiglie omonime vivevano a Maccio dalla metà del ‘500, dal secolo seguente a Paré, Cavallasca, Vergosa (S. Fermo), Olgiate, Capiago, Solzago, S. Croce di Cermenate.

MONTE OLIMPINO – A.D. 1904

A Monte Olimpino, sono venuto ad abi­tare giovane, giovane, quando appena avevo iniziato la mia vita universitaria. Solo da qualche anno si era festeggiato l’inizio del nuovo secolo con solenni fun­zioni di mezzanotte in Duomo e copiose rumorose cene inaffiate da abbondante generoso vino.
Da Monte Olimpino passavo anche pri­ma assai spesso alla domenica per la consueta passeggiata a Chiasso, dove tut­ti i Comaschi si riversavano ad acqui­stare zucchero, caffè, cioccolata e tabac­co, a bere abbondante birra, a ballare al Crotto della Giovannina e al Bagnetta, dove si davano convegno tutte le came­rierine ed i giovanotti della città. Allora naturalmente non si parlava nè di tes­sere di frontiera, nè di passaporti: tutti transitavano liberamente ed il controllo doganale era di manica larga.
Poche case a Monte Olimpino, poche a Ponte Chiasso, la corriera a cavalli di Sioli, con due corse al giorno, una al mattino, l’altra al pomeriggio, portava in città i non molto numerosi passeggeri. A Como luogo di partenza i Tre Re, alla Vignascia fermata obbligatoria all’ombra di un frondoso platano per dar fiato ai cavalli. Ma già si parlava di una tramvia che avrebbe dovuto congiungere la cit­tà con Chiasso e che di fatto venne inau­gurata nel luglio del 1906.

Da pochi anni erano state costruite le scuole, che prima avevano sede nella vec­chia chiesa poi sconsacrata nel 1864 quando fu eretta l’attuale, ma non an­cora era stata costruita la sede della So­cietà Operaia, nè l’Istituto dei Sordomu­ti, e neppure la casa che poi doveva ospi­tare la Cooperativa di Consumo, diretta e portata in floridissime condizioni da un uomo modesto, integerrimo e buon repubblicano, il compianto Ortensi. Lungo l’attuale via Bellinzona solo po­che vecchie case, e davanti alla chiesa un enorme cumulo di pietre, ricavate dalla costruzione della galleria ferroviaria, che era stata aperta nel 1881, allor­quando venne traforato il Gottardo ed unita l’Italia alla Svizzera ed alla Ger­mania attraverso quell’importantissimo valico.
Ma il Castel Carnasino già da tempo im­memorabile dominava Como, ed il Ca­stello di Quarcino, Chiasso, e da qualche anno Alberto Pisani Dossi, distinto di­plomatico e celebre scrittore della Sca­pigliatura milanese, aveva eretto a Car­dina quella magnifica villa, che ancor oggi ammiriamo, dove egli doveva tra­scorrere nell’infermità gli ultimi anni della sua vita operosa. Nessuna villa ancora era stati costruita sul colle di Monte Olimpino, se si ec­cettui quella attualmente De Mas, cono­sciuta in tutta la città per il suo tetto in lamiera. Alcuni anni dopo a cura della Società Cooperativa Edificatrice, proprio alla svolta di Roncate, sul pendio che scende verso la Valeria, doveva sorgere un enor­me fabbricato di abitazioni popolari che per la sua architettura e per la sua mole deturpava tutto il colle. Ebbe vita assai breve: durante la grande guerra fu ab­battuto, rifacendosi della spesa di co­struzione colla vendita del materiale ri­cuperato, e del terreno, assai cresciuti di prezzo. Alla Villa Scalini, ora Frigerio, ed alla Villa Croce eretta nel 1914, doveva poi seguire tutto quel complesso di costru­zioni edilizie che ora ammiriamo, e che fanno il poggio di Monte Olimpino tanto bello ed ameno. Castel Carnasino al principio del secolo era proprietà dei Conti Coopmans de Jol­di, famiglia di principesca ospitalità, che apriva le proprie sale a feste e rice­vimenti ed era larga dispensiera delle sue cospicue ricchezze anche in opere di bene.
Nella villa, attualmente Bergomi, ve­niva a trascorrere l’estate l’avv. Sampie­tro, un pezzo grosso del partito cattolico milanese, di cui invidiavo il tiro a due che giornalmente lo portava il mattino alla Stazione di S. Giovanni e lo riportava in villa alla sera.
Quarcino era possedimento dei Conti Reina, una nobile famiglia che ha dato a Como uomini di non comune valore nel campo delle scienze e della politica. Tutti a Monte Olimpino ricordano l’avv. Luigi Reina, che per molti anni ri­coprì cariche importantissime e fu sin­daco di parte democratica. A Monte Olimpino era particolarmente affezionato: presidente della Soc. Ope­raia, promosse la costruzione della bella sede attuale, che fu progettata e diretta dal fratello ing. Carlo. Meno noto a Monte Olimpino, dove trascorreva le vacanze estive, il prof. Vin­cenzo Reina, insegnante di geodisia al­l’Università di Roma, il cui valore e la cui fama erano pari alla bontà ed alla modestia.
Nel roccolo di Quarcino ci riunivamo, nelle sere del tardo ottobre, contadini ed amici a mangiar caldarroste inaffiate dal vinello del luogo che si attingeva con boccali di terracotta direttamente da una ricolma brenta.
La sede della Soc. Operaia doveva dare ospitalità alla Filarmonica che fin da allora e per oltre un quarto di secolo fu presieduta dall’avv. Coopmans, tuttora vegeto e sano ed al quale inviamo i no­stri auguri di ancora lunghi anni di vita. Direttore era un valente maestro, il Mer­candalli, che aveva saputo acquistarle lar­ga fama e numerosi allori nei concorsi bandistici. La stessa sede dava pure ospitalità a tutte le iniziative culturali e sportive dell’epoca, perchè anche allora si faceva dello sport e parecchio si operava per la cultura del popolo. Risale infatti al 1908 l’apertura delle Scuole serali e festive destinate a completare l’istruzione dei fi­gli dei nostri lavoratori che allora, a Monte Olimpino, si fermava alla quarta classe elementare. A capo di tutte le manifestazioni locali, per spirito di iniziativa e per attività, ricordo il Battista Moretti, da tanti anni scomparso, e il buono e tanto caro Luigi Molteni, padre dell’Edoardo, che fin d’al­lora, se la memoria non mi falla, era un appassionato suonatore di ottavino, fe­condo oratore e poeta meneghino.
La chiesa non ancora aveva quel bel concerto di campane di cui solo più tardi fu provvista e che la guerra ci ha por­tato via. Don Antonio Fasoli ne era par­roco, era vicario quella figura caratteristi­ca e popolare di don Vittorio Baj, che solo pochi anni fa moriva carico d’anni, ma vegeto ed arzillo sino agli ultimi suoi giorni. Già allora si parlava di ampliare la chiesa, già allora don Antonio tutte le domeniche dal pulpito sermoneggiava in tono assai risentito contro la poca mo­destia delle ragazze, che amoreggiavano nascoste dietro i muri e le siepi ed in ore serotine. (O ragazze che mi leggete, non fate cenno alle vostre nonne che mi tac­cerebbero di sfacciato bugiardo).
Proprio all’inizio del secolo era sorta la Fabbrica di Cemento Montandon, che per venticinque anni doveva dare lavoro e pane a tante famiglie di Monte Olim­pino. Capo di quella floridissima fab­brica era lo svizzero Leone Montandon, uomo di rara ed illuminata bontà, che molto ha fatto ed ancor più avrebbe fat­to per Monte Olimpino, se troppo presto non fosse mancato. Precorse i tempi in molte iniziative, nè posso tacere fra le altre l’assunzione di una assistente visi­tatrice per le famiglie dei suoi operai, iniziativa che doveva avere trent’anni dopo tanti benefici sviluppi.
Altre industrie non v’erano, ma fiori­va, come ha sempre fiorito fra noi, il contrabbando. Brogeda era allora famo­sa: bricolle di tabacco e di caffè passa­vano ogni giorno il confine, mentre don­ne e ragazzi facevano il piccolo commer­cio rifornendo poi di coloniali tutte le drogherie di Como e specialmente quelle di Borgovico. A Monte Olimpino e a Ponte Chiasso non c’era nè macellaio, nè salumiere, e tantomeno tabaccaio e droghiere; di que­sti ultimi non se ne sentiva affatto il bi­sogno rifornendosi tutti in Chiasso. Mancava l’acqua, e non si parlava nè di gas e tanto meno di luce elettrica: la illuminazione pubblica si effettuava a mezzo scarsi lampioni ad olio, accesi alla sera da un incaricato che si portava in giro la scala da una parte ed un recipien­te per l’olio dall’altra; riempiva ed ac­cendeva le lampade, che al primo soffio di vento si spegnevano.
Già fin d’allora la popolazione era nel­la sua grande maggioranza ‘rossa’, ma sen­za faziosità e senz’astio. Alle sagre reli­giose tutti partecipavano: falò e lumi­narie alla festa del paese, ma falò e fuo­chi d’artificio anche il 20 settembre; carri mascherati e balera a carnevale. Poca popolazione e tutta indigena, che costi­tuiva una grande e sola famiglia, con tutti i pettegolezzi degli ambienti pic­coli, ma anche con tutta la bontà e la solidarietà nella gioia e nel dolore che dà la vita trascorsa vicino.
A voi, giovani nati dopo l’altra guerra, la descrizione da me fatta di Monte O­limpino al principio dei secolo sembrerà quasi irreale e come di un tempo lonta­no, lontano. La stessa sensazione provavo io, quan­do mio padre mi raccontava di Como pri­ma del 1870 e proveranno i vostri figli quando racconterete loro ciò che avete visto in questi anni fortunosi.

Avv. AMILCARE CASNATI
(scansione ed elaborazione da L’OLIMPO del 14 ottobre 1945 a cura di Franco Romanò)
-L’Avv. Amilcare Casnati è nato il 28 dicembre 1884; ancora giovanissimo venne ad abitare nella casa di famiglia che ancora possiamo vedere a Soldo. Oltre che avvocato e procuratore del Foro di Como, è stato per un periodo (intorno agli anni ‘40) Segretario Generale della Amministrazione Provinciale, ed anche sindaco nel Consiglio di Amministrazione della Banca Popolare di Como.
Molto attivo anche nel mondo associativo è stato cassiere, poi segretario ed infine vicepresidente della Società Filarmonica di M.O.; vice presidente della Società Storica Comense, presidente della Società Dante Alighieri di Chiasso e membro del Consiglio Direttivo del Consorzio delle Scuole Popolari Serali e Festive.
E’ morto a Monte Olimpino il 21 ottobre 1950.-