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ANDAA’ DE SFRUUS…(la fin)

Il boom economico degli anni ‘50 e ‘60 segnò la fine dell’epoca romantica del contrabbando e dello spallone, soppiantati dalla tecnologia e da sistemi di commercio illegale meno romantici, che non lasciano spazio ad una figura nata dal bisogno e dalla fame.
Non più riso, tabacco, caffè o orologi, ma droga, uranio, soldi, immigrati clandestini, come dimostrato dal triste fenomeno dei passatori. Le organizzazioni che lo curano non hanno nulla a che fare con le vecchie combriccole di paesani. Semplicemente schiacciando un tasto di invio di un computer, si possono contrabbandare più soldi che durante l’intero periodo d’oro del contrabbando lariano. Il progresso economico e sociale delle popolazioni ticinesi e dell’Alto Lago, poi, ha fatto il resto, eliminando quelle sacche di povertà che fino al dopoguerra servivano da serbatoio per le organizzazioni di contrabbandieri. La gente si è imborghesita: chi mai, oggi, se la sentirebbe di arrampicarsi sui sentieri ripidi che costeggiano il Sasso Gordona, portando sulla schiena trenta o quaranta chili di zucchero, sigarette, caffè e sfidando i proiettili e le trappole delle guardie di finanza?
Una figura di spicco di questo nuovo tipo di “sfrusadur”, è Augusto Arcellaschi, indicato come il nuovo boss del contrabbando di sigarette. Soprannominato “Il Rosso di Albiolo” per la sua capigliatura, o anche “Il macelarin” per i suoi trascorsi professionali, da tempo viene indicato in un fascicolo della Guardia di Finanza di Milano fra i sette capi del contrabbando internazionale. Da sempre uno scalino sotto Gerardo Cuomo, ora potrebbe aver preso il suo posto.
In paese è da moltissimi anni che non ci mette piede, ma tutti lo ricordano, sanno chi è. Nato a Como il 1° agosto del ’44 aveva preso residenza nell’Olgiatese non lontano da valico di Bizzarone, punto davvero strategico per i suo malaffari.
Negli Anni ’70 era già un pezzo da novanta del settore. A metà del decennio successivo conquistò grande fama per essere finito in galera nell’ambito della clamorosa inchiesta che riguardava lo scandalo della dogana di Chiasso e che aveva travolto alcuni funzionari in odor di corruzione che, in cambio di cospicue fette di milioni, chiudevano entrambi gli occhi e lasciavano transitare da Brogeda, tra il 1979 e il 1981, 160 tir carichi di “bionde”.
Un altro episodio risale al maggio del ’93 quando ad Albate cercò di recuperare un carico di sigarette che qualcuno aveva rubato alla sua, già allora, potente organizzazione malavitosa. Si era mosso personalmente, se non altro per far capire a tutti chi stava nella sala dei bottoni. Non ebbe molta fortuna in quell’occasione: nel luogo dove si erano incontrati i vari malavitosi erano arrivate anche le Fiamme Gialle e lui per fuggire aveva scavalcato una recinzione metallica. Durante il “salto”, però, venne tradito dalla sua fede matrimoniale rimasta impigliata nella rete. Arcellaschi ci lasciò un dito. Per nulla preoccupato lasciò il dito appeso alla recinzione e, seppur sanguinante, proseguì la sua fuga riuscendo ad entrare, grazie ai suoi uomini, in Svizzera da Rancate, nonostante anche la frattura ad una gamba riportata nello stesso “salto”… In quell’occasione si beccò una denuncia a piede libero con l’accusa di aver contrabbandato in tre mesi “soltanto” 60 tonnellate di sigarette. Accuse dalle quali venne prosciolto per una momentanea depenalizzazione del reato di contrabbando.
Mica finita: pochi mesi dopo, nel novembre del ’93, Augusto Arcellaschi venne arrestato dalla Polizia Cantonale del Ticino con l’accusa di aver corrotto l’allora Numero Due della Polizia di Chiasso, Leonardo Ortelli. Ma già ad inizio di quell’anno il “Rosso” di Albiolo era stato indagato per la misteriosa scomparsa di un camionista di Uggiate Trevano. Quel mistero non è mai stato chiarito. Di certo lo scomparso, che, secondo quanto era emerso dalle indagini, avrebbe effettuato parecchi trasporti illegali per conto del “Rosso”, quel giorno avrebbe dovuto incontrare proprio Arcellaschi, che alla fine venne arrestato in nel 2004 in Slovenia, per vari provvedimenti restrittivi delle autorità giudiziarie italiane, e sta scontando, credo ai domiciliari, quello che gli rimane delle pene detentive.

ANDAA’ DE SFRUUS…(3)

Il Cinto

Il nostro prossimo eroe, il Cinto, di cognome Valdè, è nato e vissuto a Colonno, dove il contrabbando aveva fornito per anni un reddito supplementare a una popolazione maschile abituata alla migrazione stagionale in Svizzera come operai edili. Dal canto loro, le donne di Colonno avevano sviluppato una specializzazione nella produzione di burro locale adulterato con la margarina, diffusosi a Como, Brianza e Milano. Questa tradizione clandestina locale era così forte, che Colonno sviluppò tra la sua gente un senso di “omerta” indistruttibile, come in qualsiasi territorio controllato dalla mafia.
La carriera fuorilegge del Cinto iniziò nel momento in cui fu smobilitato dall’esercito, nel settembre 1943 in seguito all’armistizio del governo Badoglio. Immediatamente andò in montagna come partigiano della 52a Brigata Garibaldi con “Novara” come suo nome di battaglia. Una delle sue prime azioni fu il sequestro di armi dalla caserma della Guardia di Finanza ad Argegno dove molti finanzieri stessi desiderarono unirsi ai partigiani. Partecipò anche all’irruzione, guidata dal capitano Ugo Ricci, alla caserma Porlezza della Divisione Navale X Mas. La sua ultima grande azione fu quella di fornire copertura di retroguardia al fallito tentativo (in cui fu ucciso Ugo Ricci) di rapire Guido Buffarini Guidi, il ministro delle Finanze nazifascista, allora residente in albergo a Lenno. Successivamente si dedicò a tempo pieno al contrabbando.
Il periodo tra il 1945 e il 1948 è stato quello in cui la fornitura di merci di contrabbando è andata in entrambe le direzioni oltre il confine svizzero. L’arrivo delle truppe americane, ben rifornite, offrì una fonte di merci che scarseggiavano disperatamente in Svizzera. Oltre ai generi alimentari, gli spalloni ora trasportavano pneumatici per biciclette e camion, tessuti per paracadute e persino preservativi. I rischi presi dagli spalloni erano considerevoli poiché gli svizzeri avevano integrato i loro normali controlli alle frontiere, con soldati reclutati dai cantoni di lingua tedesca che non esitavano a sparare a chiunque ignorasse il loro grido di “Alt”. Tuttavia nel 1948 la domanda di queste merci diminuì, le guardie di frontiera svizzere furono ritirate e gli svizzeri depenalizzarono tutto il traffico che attraversava il loro territorio verso l’Italia.
L’usanza tradizionale aveva stabilito che i gruppi di contrabbandieri viaggiassero in un unico convoglio. Il Cinto, tuttavia, sviluppò un proprio metodo particolarmente riuscito. Viaggiava con una fidata banda di otto o nove spalloni ma dividendo il gruppo in due, con lui stesso in testa insieme a due dei membri più veloci e forti della sua banda; portava una bricolla carica di soli 15 chilogrammi di merce. Gli altri membri seguivano ben lontani dal gruppo di testa. Se il gruppo di testa avesse incontrato una pattuglia di finanzieri, gli altri membri del gruppo rimanevano nascosti fino a quando la pattuglia non fosse stata trascinata via all’inseguimento. Il gruppo di testa avrebbe dovuto, nel peggiore dei casi, abbandonare solo due delle loro bricolle per aiutare la fuga. Il Cinto in linea di principio non ha mai abbandonato il proprio carico più leggero.
Il Cinto valutò anche di stringere alleanze con altri contrabbandieri, in particolare con gli spalloni di Dongo. Quelli di Dongo non ebbero bisogno di molta persuasione per comprendere i vantaggi di iniziare le loro incursioni transfrontaliere da Colonno. Un viaggio da Colonno ai negozi appena oltre il confine durava circa tre ore anziché le sei necessarie da Dongo. Il Cinto prese a collaborare anche con contrabbandieri con sede a Lezzeno, direttamente dall’altra parte del lago rispetto a Colonno. Il trasporto successivo delle sigarette e del caffè da Lezzeno al mercato principale di Milano era molto più sicuro da lì, che dalle sponde occidentali del tratto comasco del lago: subivano meno controlli da parte della Guardia di Finanza e avevano più rotte alternative per Milano.
Con l’introduzione dei suoi nuovi metodi il Cinto assunse la guida di un’impresa criminale di successo. Divenne noto come il Capitano del Lago. Aveva l’abitudine di trovarsi ogni lunedì sera, per regolare i conti e programmare le attività della settimana successiva, in un bar accanto alla stazione degli autobus a Como. Qui si davano appuntamento tutti e tre gli interlocutori, ovvero i trasportatori di Lezzeno, gli spalloni di Dongo/Colonno e i negozianti della Svizzera. Lezzeno prima avrebbe pagato a Colonno il numero di bricolle loro consegnato, Colonno avrebbe quindi pagato gli Svizzeri per quello che si erano portati via da oltre confine.

ANDAA’ DE SFRUUS…(2)

Prima di proseguire con gli “eroi”, desidero chiarire che in quegli anni, il soprannome cimino era stato affibiato anche ad un  finanziere, in servizio ad Argegno, un ragazzotto alto e arrogante al punto di farsi la fidanzata a Colonno, e di andare spesso a trovarla. In una occasione, in paese non esitò a sparare per bloccare due bricolle; una pallottola sfiorò la testa di un anziano che se ne stava seduto su uno sgabello, fuori dalla propria casa. Due sere dopo il finanziere fu trovato pesto e malconcio e i superiori pensarono, opportunamente e per evitare guai più grandi, ad un suo immediato trasferimento.

Il Ment

Il nostro secondo eroe è Clemente Malacrida nato nel 1900 e cresciuto a Pellio Intelvi. Inizialmente applicò la sua conoscenza della montagna e dei sentieri meno conosciuti oltre confine, per assistere i vari agenti segreti che volevano raggiungere Lugano. Dopo la fine della Grande Guerra prese ad integrare le sue entrate come intermediario nella vendita di bestiame, contrabbandando tabacco, cioccolato e caffè dalla Svizzera. Ben presto fu riconosciuto come capo dei contrabbandieri guadagnandosi il titolo “Il Duca dei Contrabbandieri”.
Negli anni ’30 il Ment era costantemente in fuga dalla Guardia di Finanza, dalla Polizia Forestale e dai Carabinieri. Il suo status eroico fu assicurato quando, il 10 agosto 1933, mentre partecipava alla festa locale di San Lorenzo in una grande scampagnata al Rifugio Venini sul Monte Galbiga, aiutò il suo amico di sempre, il Gal, a fuggire da una trappola tesa dai Carabinieri. Insieme fuggirono discendendo la Val Perlana fino al Monastero di San Benedetto.
Ha guadagnato fama nazionale l’inverno successivo quando ha guidato un enorme convoglio di cento contrabbandieri che portavano caffè attraverso le montagne innevate. Il maltempo aveva causato una prolungata interruzione delle traversate regolari poiché le tracce nella neve rendevano facile l’individuazione da parte dei finanzieri. La situazione era diventata critica, con gli investitori irrequieti nel vedere l’accumularsi di merci in attesa di ritiro nei negozi appena oltre il confine svizzero. Si decise di organizzare una spedizione di massa degli spalloni e l’unica persona a cui poteva essere affidata la guida era il Ment coadiuvato dall’amico il Gal. Tuttavia in questa occasione il Ment fu tradito da uno degli spalloni che parlava troppo. La colonna fu intercettata alla Cima di Bove lungo la Val Mara che porta a Lanzo Intelvi. L’episodio è notoriamente rappresentato sulla prima pagina della “Domenica del Corriere” che, sotto il titolo “2 contro 100”, sosteneva che la colonna fosse stata fermata da una semplice coppia di finanzieri, sebbene in realtà fossero stati intercettati da almeno cinque pattuglie. Novantasette bricolle piene di caffè dovettero essere abbandonate per consentire a tutti gli spalloni, tranne uno, di sfuggire alla cattura. Per Ment, la pubblicità gli assicurò di diventare un simbolo eroico di sovversione. Furono raddoppiati gli sforzi per arrivare al suo arresto.
Un anno e un mese dopo, lui e Gal furono catturati il giorno dell’Epifania del 1935 dai Carabinieri di Castiglione Intelvi a Blessagno. Furono processati un mese dopo ed ad entrambi furono inflitte lunghe pene detentive. Ment riuscì comunque a evadere di prigione nell’estate del 1936, ma fu rapidamente nuovamente arrestato, picchiato e lasciato morire per le ferite provocate dalle botte ricevute, pochi giorni dopo essere tornato in prigione, nel carcere di Pozzuoli. Gal scontò la pena e uscito dal carcere nel 1943, tornò subito in montagna come partigiano impugnando le armi contro il regime nazifascista.
Senza la fuga anche Ment avrebbe potuto evitare la morte, ma la sua determinazione a evitare l’arresto durante la sua carriera, è nata da uno spirito ribelle. Il suo rifiuto di scendere a compromessi con l’autorità sembrava esemplificare lo spirito indipendente della Val D’Intelvi e il suo esempio ha continuato a ispirare le future generazioni di spalloni.

ANDAA’ DE SFRUUS…(1)

Nessuna era romantica può fare a meno dei suoi eroi. Il folklore ha trasformato molti banditi moralmente discutibili in guerrieri contro l’oppressione, che lottano per i poveri e per una più giusta distribuzione della ricchezza.
Tali eroi sono emersi anche tra le fila degli spalloni che operavano all’interno della Val D’Intelvi e del Lago di Como. Condividevano quel mix di qualità comuni ai capi contadini da Robin Hood ai giorni nostri: possedevano una conoscenza approfondita dell’ambiente locale, comune a tutte le comunità contadine, unita a uno spirito imprenditoriale e alla capacità di guidare il gruppo. La loro sicurezza dipendeva dal mantenimento del rispetto e del sostegno delle loro comunità locali che, per qualsiasi motivo, conservavano una maggiore lealtà verso uno di loro piuttosto che verso lo Stato in generale.

Vediamo di conoscerne qualcuno.

Il Cimino

Il nostro primo eroe ci riporta ai nostri tempi. Il Cimino è oggetto di una ballata intitolata “La Ballata del Cimino” scritta e musicata dal cantautore locale Davide Van de Sfroos. La ballata racconta una delle gesta di Sergio Bordoli, contitolare con la moglie del Bar Sport Lella di Sala Comacina. Fu soprannominato Il Cimino in onore di Leonardo Cimino, criminale romano brevemente famoso verso la fine degli anni ’60 per un paio di rocambolesche rapine. In gioventù il Cimino era un contrabbandiere che seguiva le rotte guidate da il Cinto (un altro eroe del quale parleremo in una altra occasione) dalla Svizzera a Colonno e attraverso il lago fino a Lezzeno. Sergio ‘Il Cimino‘ Bordoli è nato dopo l’ultima guerra in una famiglia di dieci persone. All’età di 14 anni chiese a sua madre il permesso di iniziare a contrabbandare. Permesso prontamente accordato, vedendo come la famiglia avesse un disperato bisogno dei suoi guadagni aggiuntivi. La ballata narra di un’occasione, all’inizio degli anni ’60, quando gli fu affidato il compito di scoprire bricolle piene di sigarette che erano state nascoste in prossimità del lungolago vicino a Brienno e di caricarle su un motoscafo per la traversata per Lezzeno. Purtroppo una pattuglia armata della Guardia di Finanza con cani lo intercettò. Per evitare la cattura si gettò nel lago vicino al ristorante Il Crotto dei Platani e nuotò sott’acqua fino a riemergere sotto la copertura di una scogliera sporgente. Lì aspettò che i finanzieri rinunciassero a ogni ulteriore ricerca per lui, prima di uscire gocciolante e avendo perso la camicia di Lacoste.

A CAVALLO DEL CONFINE – racconti per l’estate

MULATTIERA DI NON SOLO PANE (piccolo racconto per “ricordare”)
di Cesare Puppi – a cura del Cap. c.a. Gesualdo Greco della Sezione Anfi di Como

Luis –  … ‘Velina … o ‘Velina! Set isturna né! Sturna cum’é ‘na tapa!
La nostra infatti, braccia abbandonate sul grembo e faccia inclinata di lato, che sembrava staccarsi di momento in momento dal corto collo, rispose al richiamo, come se quella voce risuonasse dentro la valle del torrente, là, appena fuori l’abitato.
Ma bastò quell’attimo, perché in lei scattasse immediato l’obbligo della risposta. Ciò era dovuto al cliente, all’avventore rompiscatole, che interrompeva alla ‘Velina le sue cavalcate fantastiche, incartate nei meandri delle giornate sempre più logoranti. Con voce stentatamente calma ma bonaria chiese:
‘Velina – Sa voett … Lùis! Set mia a post, stasira, eh? El mia ura da ‘nan in su?
Luis – Eh! Ammo ‘n pezètt nè. Voet casciam in su, su par qui brich là, con la gola seca? … dai, fam un piaseè, voiuman giò un bicceer da quel ròss; anzi fà inscì, fan una taza, parchè ho fai la scena cunt l‘aij tridaà sura ’na slepa da lard nostran cha ma daj al Poldu Guz.
Gli scappò un rutto, al Lùis …. ma tant’è, perché, ne la ‘Velina, ne gli altri avventori stipati nel piccolo locale, se ne scandalizzarono. La ‘Velina si alzò a fatica, levando il suo peso dalla vecchia seggiola impagliata, si diresse alla vetrinetta ricavata da una piccola parete, ove erano riposte alcune bottiglie già iniziate. Contenevano piccole quantità di grappa, di cedro o di vermut. Non mancava il Marsala, quello vero, quello che il fidato negoziante faceva venire dalla Sicilia. Questa particolarità vantava la ‘Velina e, grazie alla fiducia del suo fornitore, nel suo mini bar cucina-osteria, si sorseggiavano solo alcoolici speciali.
E vino: vino che oggi definiremmo D.O.C., ma doc che più doc non si può. Infatti, quando arrivava la fornitura stagionale, il vino era contenuto in damigiane, che riposte nella cantina ricavata sotto casa, tra i muri di sassi di Moltrasio e anfratti scavati, quasi fosse un crotto, riceveva l’effetto magico dell’aumento delle sue peculiarità!!! Gusto, profumo, stagionatura.
Il nettare, in quell’ambiente naturale e privilegiato, se ne stava in buona compagnia, tra casse di birra, salami ed affini, ma soprattutto tra quelle forme di formaggio nostrano, madide e trasudanti di buona muffa che gli conferivano eccezionali proprietà.
Si capisce allora, perché, quelle persone, “chi balosson”, ammesse in quel esercizio particolare, se la tiravano delicatamente tra un bicchiere e l’altro, accompagnandosi con generosi sandwich che, fuori orario di negozio, la ‘Velina, un po’ di straforo e controvoglia, forniva ai frequentatori. Lasciamo ora questi stuzzicanti componenti, per riprendere il punto.
Il Lùis era un ‘’tipo” che al vedersi non suscitava alcunché di strano per via di particolari caratteristiche. Il viso un po’ allungato, con delle pieghe visibili trasversali, naso ben sviluppato che i baffettoni gli minimizzavano, sopracciglioni che facevano da cornice a due occhi chiari, vivaci e guardinghi; il tutto te lo mostrava sveglio, acuto, attento, volpino come lo sono la maggior parte delle persone di montagna.
Ma allora, che c’è di così strano e di arcano in questa narrazione, ove i personaggi, in fin dei conti, hanno vissuto come tanti, in questa zona chiamata Val d’lntelvi?
C’è che questo contesto, per la cronaca, ci riporta agli anni 50-60 del XX secolo.
La popolazione attiva poggiava principalmente sulle attività apprezzate nel campo dell’edilizia: muratori, piastrellisti, imbianchini e stuccatori. Eredi dei famosi “Maestri Intelvesi”. Purtroppo la mancanza di lavoro li costringeva ad emigrare, principalmente in Svizzera, ma anche in Francia e Germania.
‘Velina – I faseva sù al so’ fagutin e i partiva par Zurig, Lucerna, Basilea o anca in sul Vallees.
Giacum – Se stava via ‘na stagion senza fa nessuna scapadela foera via. A menu che gh’eva ’na quai situazion grama.
Questa era la cornice che, nel bene e nel male, permetteva alle famiglie di sbarcare il lunario, accantonando anche degli “spiccioli” per rafforzare la propria posizione. Per quel che riguardava le altre attività maschili o femminili, ci si poteva accontentare della scarsa offerta di lavoro nella zona attorno alla valle e/o nel capoluogo.
Nonostante ciò, il fabbisogno era superiore e le risorse ancora insufficienti per un accettabile benessere. Allora, per farla breve e tornare ai nostri personaggi, ci ritroviamo nella famosa situazione dell’attività contrabbandiera, nella quale si specchiava una maggior possibilità di guadagno. Facile ed illecito? Diremmo: eticamente esercitato? Il fatto è che il contrabbando è sempre esistito e nella fattispecie, ci si passava sopra anche con la coscienza. Conseguentemente lo Stato arginava il problema, creando la G.d.F. – Guardia di Finanza – insediata sui confini con caserme di compagnie militari.
Giacum – Dal Bisbin al Generus, lung ul senteé al cunfin tra l’Italia e la Svizzera, dalla “Val di Mugg” dent ul pansciun che al va sù ad Uriment, per pò vignì giò dalla Val Mara, de bricoj, “al sac”, na passavan un bel po’. La caserma de Prabell, duve fasevumm ul noster rifurniment sura Casasc, al “pian di Alp”, “sota ‘l Sass Gurdona” la distava dal paes circa tri – quatar chilometri.
Luis – Per i polentun della bassa (Milanes e Brianzòo) che, per prim in qui ann, sa permettevan una vacanza, una sgambada, sostenuda in quel sit, ghè vourevan pressapoc… doò ur. Del rest, per grazia del Signur, i gh’ eva l’aria bona, ca la guariss i polmon.
Mi accorgo che è facile perdere il filo in questo racconto, anzi direi anche perdere la strada, attratti da quei contorni invitanti che si incontrano cammin facendo.
Quella nebbiolina avvolgente stesa su fazzoletti di prato, le volute di fumo grigiastre di qualche baita d’alpeggio, segnale di presenza umana; il cinguettio incalzante di invisibili piumati nascosti tra le faggete.
Giacum – E sù in ciel, vulava senza pressa la pujana, a cuntrulaà da lì quel che capitava, intant che numm rivavum alla nostra caserma, quella del Pian di Alp.
Tutto questo andava scritto, doverosamente, per addentrarci sempre più in quell’insieme di “cose e di odori” che impregnavano l’aria.
Ci “abitavano” credo, dai quattro ai sei ragazzi, giovani, paracadutati in un luogo a loro imposto, sempre per quella maledetta carenza di lavoro, che al sud era molto pesante.
Così, tra quattro mura, si viveva in comunità con scambi di parlate e dialetti intrecciati; pugliesi, campani, siculi, calabresi. Si cucinava a turno, si lavava e si cuciva. Si passava qualche ora libera ascoltando la radio o scrivendo a casa. C’era poi la faticaccia del lavoro, basato sulla perlustrazione e sui controlli delle segnalazioni. Di giorno o di notte, bel tempo o cattivo tempo. Era guadagnarsi il pane. E non solo: ma anche il latte, la carne, le verdure e tutte ciò che serviva per la loro autonomia.
E presso quale bottega, se non quella della ‘Velina, fare i rifornimenti?
‘Velina – Ma come se faseva a fàa rivàa la roba a quei fieou? I “burlandi” – i finanzier – stavan rintanàa per dì e dì in quella càa là, impegnàa in una sfida tra guardi e spallun?
Ecco irrompere la figura del nostro Lùis, il portapane, l’uomo cavallo, l’uomo che sostituiva la jeep, l’uomo del pane quotidiano, l’uomo che giornalmente raggiungeva la caserma.
Giacum – Cun scià ‘l zaino in spala, ul “Lùis da la Pruvidenza”, come spuntava l’alba, al rivava adasi, adasi. E numm lì a speciall e a festeggiall.
In quell’incontro, forse sparivano tutti gli antagonismi, le differenze di posizione tra legalità e bisogni. Il Lùis, ora slacciava il pesante fardello, ne uscivano scatolette di carne e tonno, sacchetti di pasta e riso. E dentifricio, lucido da scarpe, lamette, birrette e quant’altro. In coro, in tutti i dialetti, echeggiava un “grazie” Lùis. Che alla fine, porgeva l’elemento più atteso che stava racchiuso in qualche busta sgualcita, ma tanto desiderata, notizie da casa: papà, mamma, fratelli che inviavano gli ultimi commenti. Su qualche viso, però non compariva il compiacimento, bensì si leggeva la nota dolente per qualcosa che non andava …
Asciugandosi alla belle meglio il sudore ormai rappreso:
Luis – Pa ‘n còò l’e naia… su, tiree ‘nzema i tuchit da idei ca v’e restaa e intant ca ’mbevi giò un grapin, ca ma tira su, ma prepari a nan. Parché ‘pena rivi a cà, voo a fà fee. Vurariss mia che ma catass al brutt temp.
I giovani ricomponevano l`ordine delle cose, grati per il piacevole intervallo e scherzosamente rispondevano: “agli ordini signor comandante!”. Una piccola risata concludeva la spedizione ed ognuno riprendeva la sua occupazione. Nel ripartire sulla via del ritorno, Lùis si cacciava in bocca l’affezionata “alfa” (ma dov’erano le bionde’?) e col suo passo felpato scendeva al paese. Chissà, forse in cuor suo si sentiva una “staffetta zufolata”, che si allungava fin dentro la macchia, ove gli faceva “verso” il cuculo confortandolo nel cammino.

Il Luis, entrando nel localino della ‘Velina, tappa quotidiana insostituibile e di grande supporto morale, mostrava quella sera una seriosità inconsueta. Molti occhi si rivolsero ai suoi, per indagare con discrezione quale potesse essere il motivo di quello stato.
Luis – Ciau a tucc. L’e mia la sira bona, stasira; la mia pinin al g’ha la fevra forta e sem mia da che part la vee. Al duttur, la mia pudù vedela, parchè le fòò in vall a fa cumpraà ‘na dona.
La ‘Velina si avvicina e cerca di rincuorarlo con spontaneità
‘Velina – Sta tranquill, vee. Se la too dona la g`ha bisogn, dic da famal savee. Mò, dimm su: veet in su subit?
Luis – Par forza … ma toca mì; ma g’u la pell dùra ma adess, vori buttà via la gramigna e tirà innanz. Scià…’Velina, bevemigam giò un biccer, quel solit, ta racumandi. La pò vess la mia medesina par fa giràà ben al mutur.
ll ciocco, scoppiettante nel camino, mandava scintille che salivano per la cappa; quel calore sembrava assopire anche i pensieri, oltre ai movimenti, degli ospiti serali.
Giacum – Scopa da sett; dai Pepp che stavolta ga la fem trà, a chi dùù lì.
Erano quattro i giocatori, posizionati in un angolino, che a tratti alzavano la voce, incapaci di trattenere quella ritualità vetusta di giocatori incalliti. Tutto era in buona fede, alla fine, si finiva in gloria. Luis, che osservava la scena, sorseggiando il suo vino, intervenne dicendo:
Luis – O gent, sa mal permetuff, va uffrisi da beev, in mezz ai dispiasee sa pò truvà quaicoss da bon. Al mè ziu, da dent a San Gall, al ma mandai a di, che pa’ Nataal al vee fòra cun scia un poò da franch svizar, c’al vòò famm un prestit, par fà ca poda slargà la stala. E alura, grazie ziu, an bevum giò un fiaa insema ai noss’amiss…salùùt.
Veramente una bella azione, quella del Lùis, che ora sembrava essersi tolto un poco di quel fardello visto in precedenza. Anzi cogliendo scherzosamente un altro inghippo dei giocatori, aizzò:
Luis – Varda … Varda … Giacum! Ch’el Toni li ta frega la napula, staach attent.
La ‘Velina, che per pochi secondi, si era seduta e stava crollando dal sonno, fu svegliata dal potente starnuto uscito dalla gola del Luis. Spruzzi a parte, era quasi “saltata” via.
‘Velina – Che cavul d’un fregiùù ta g’hee, che stremizi… un’oltra volta, al mè caar Lùis sonum al campanell.
Scoppiarono in una risata con adeguato commento.
Luis – Al mè starnùù l’é bon segn, ‘Velina. L’è mei d’un oroscopo.
Dopo questo intermezzo sonoro, anche i ritardatari, al volgere delle ore, si  apprestavano a rincasare. Per la povera ‘Velina, sarebbe andata ancora per le lunghe.
Riassettare, lavare, preparare l’approssimativo rendiconto. Aveva incominciato a piovere. Il Lùis per il suo ruolo, era ancora agli ultimi preparativi. Però il suo fieno era in cascina, al sicuro. Ora toccava a lui: ricomporsi, controllare la roba preparata dalla ‘Velina, isolare dalla pioggia lo zaino, infine chiederle:
Luis – ‘Velina, mett dai tùtt …’et metùù dent la spuleta negra pal brigadier .. e i culzett e i fazulitt…’Set brava. Bon. A l’ura an voo: duman, ta porti i furmagiit da cavra, quii ca fa la Maria d’Erbonne. Ciau, ‘Velina …. e grazia da tutch. E anca ti van in lecc, ca ta set ischtraca.
Si era assestato ben bene la pesante zavorra, calcandosi il passamontagna fino alle orecchie, così imbastito, col suo fedele tabarro, uscì. La notte accompagnava i suoi passi sulla sconnessa mulattiera; per lui non era un problema. Con la sua particolare andatura, sapeva evitare tutti gli ostacoli.
Del resto, era una vita che faceva il pendolare; figurarsi … quella sera era una sera somigliante alle precedenti. Anzi, da come era andata la giornata, si sentiva addosso quel po’ di euforia pregnante, che del resto non aveva nascosto là, dalla ‘Velina.
Forse era anche il nero notturno che sembrava sciogliersi negli invisibili, piccoli rigagnoli che la pioggia andava formando sul sentiero.
E la ‘Velina? Dove abbiamo lasciato quella donna nonché mamma, che incarnava la pazienza, la conoscenza, la saggezza, che i figli di questi monti irradiano, orgogliosi delle proprie capacità. Aveva controllato ancora una volta che gli ultimi ritardatari rincasassero e prima di tirare il cigolante chiavistello che dava sicurezza, tese l’orecchio, cercando anche lei la lieve armonia della pioggerella.
‘Velina – Tutt a post! Anca in cò hu faa ul me duver.
Si disse: e mentre il rintocco del campanile batteva l’una, tirò finalmente un bel sospiro.