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La storia dell’abbigliamento coincide con la storia della civiltà. Ciascun articolo d’abbigliamento ha un significato culturale e sociale. In esso si condensano alcune funzioni tramandate o evolutesi nel tempo: quella pratica legata alla vestibilità; quella estetica legata al gusto dell’epoca; quella simbolica grazie alla quale l’abito può definire l’appartenenza ad una particolare comunità, e nello specifico nel passato identificare il luogo in cui viveva la persona: montagna, paese o città. Ci si riferisce qui ad un vestiario in ambito contadino, delle generazioni del primo Novecento, ricostruito a memoria d’uomo da persone anziane.
L’abbigliamento usuale era determinato dal clima, dalla povertà di quei tempi, dal lavoro agricolo.
Le distinzioni di ceto si evidenziavano negli accessori e nei tessuti. Il taglio degli abiti era semplice, di linea abbondante e di fattura artigianale. Spesso un abito – la vestimenta – si usava per tutta la vita e lo si tramandava ai figli; il migliore era quello del matrimonio, scuro per gli uomini, nero per le donne.
Il vestiario variava pochissimo dall’estate all’inverno e la biancheria intima era limitatissima o mancante.
Gli uomini vestivano con: mudànt de palpignana (mutandoni di tela felpata, flanella), gipunìn (maglia di lana filata a mano), camisa (camicia), brag (calzoni), sostenuti dalla curegia (cinghia); sopra la camisa lo sgilé (gilè) e il marsinìn (giacca). Solitamente ai piedi mettevano i culzét (calze di lana pesante) e i zòcul (zoccoli in legno di tiglio) con la pàta de curàm (con la tomaia in cuoio). In testa il barét (berretto a visiera) o il pasamuntàgn (passamontagna). Nelle festività portavano i scarp e mettevano il capèl a falda o il capèl dur (bombetta); esibivano l’ureloc (orologio tascabile) e la cravàta (cravatta nera).
Le donne portavano: mudandùn (mutande di tela bianca con orli in pizzo), bianchéta (camiciola di tela) o tricutée (maglia invernale), sutanìn (sottoveste), faséta (bustino in tela stringato), coprifasét (bolerino). La camisa, bianca a maniche corte, aveva i tasèl (sottomanica), sopra si indossava il cursét (corsetto) e il gipunìn (giacca corta). Il vestiario comprendeva la sutàna (gonna arricciata in vita), al scusàa (grembiule nero a fiori rossi), e i zòcul con la frisa (nastri rossi) o i sibrét (pianelle in cuoio per le festività).
I bambini neonati venivano avvolti in fasce, poi, fino a tre anni vestivano con la vestina (grembiulino). Verso i quattro anni, i maschi indossavano i calzoncini con la pàta (patta) davanti.
Durante l’adolescenza indossavano per lo più abiti ricavati da quelli degli adulti mantenendone la linea.
La biancheria di casa e quella personale venivano lavate una volta al mese, in cortile, facendo la bugada (bucato, con acqua bollente in mastelli di legno, con tre insaponature e tre risciacqui), nella quale, alla fine, si aggiungeva la cenere di faggio come sbiancante e disinfettante.

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